giovedì 11 novembre 2010

l'economia secondo i pirati

Daniele Archibugi -

novembre 2010
«Voi derubate il povero con la copertura della legge,
mentre noi saccheggiamo il ricco 
con la sola protezione del nostro coraggio.»
Samuel Bellamy, ovvero Sam Black, capitano pirata

L'economia secondo i pirati


Chi credeva che la storia della pirateria fosse oramai solamente utile per ispirare qualche commedia hollywoodiana si è dovuto ricredere. Gli avvenimenti nel Golfo di Aden degli ultimi anni ci portano a chiederci quali siano le differenze tra la pirateria antica e quella moderna. Chissà se la pirateria degli anni ruggenti, quella che ha infestato le maggiori rotte commerciali tra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo, può farci capire anche quella dei giorni nostri. Secondo Peter T. Leeson, (L’economia secondo i pirati, Garzanti, pp. 300, euro 21.60, ma più significato era il titolo originale: The Invisible Hook. The Hidden Economics of Pirates), i pirati si facevano guidare da scelte economicamente razionali volte ad ottenere il massimo risultato con ilminimo sforzo e, soprattutto, ilminimo rischio. Anche a loro, insomma, si applicano le leggi della mano, anzi dell’uncino, invisibile di Adam Smith. I pirati non erano feroci per sadismo, ma semplicemente perché incutendo un grande terrore riuscivano ad accrescere il proprio bottino.
Sventolare la famosa bandiera con il teschio e le tibie, il «Jolly Roger », era quello che gli economisti chiamano un effetto «annuncio»: le vittime potenziali erano avvertite che ogni tentativo di resistere all’attacco di una nave pirata avrebbe comportato feroci rappresaglie.

Se invece la nave attaccata si fosse arresa senza fare resistenza, sarebbe stata sì depredata di tutti i beni, ma l’equipaggio non sarebbe stato sterminato. Lo stesso vale per la celebre efferatezza dei pirati nei confronti dei prigionieri: molti di loro venivano torturati, altri condannati alla celebre camminata sull’asse. I pirati avevano bisogno di creare ciò che gli economisti chiamano l’effetto «reputazone ». I prigionieri potevano volere nascondere informazioni su beni preziosi o sulle rotte di altre navi commerciali omilitari, ma grazie alla terribile reputazione di cui godevano i pirati, venivano indotti a svelare tutti i loro segreti.

Filibustieri e democratici
Leeson privilegia l’interpretazione economica dei comportamenti dei pirati: chi si ammutinava era certamente attratto dagli alti introiti: agli inizi del ‘700, un marinaio di una nave mercantile non guadagnava più di 25 sterline l’anno, un pirata coraggioso anche 300. Leeson non tralascia di gettare uno sguardo penetrante sulle motivazioni sociali e politiche di queste strane comunità di fuorilegge. Le Marine, sia quelle militari che quelle commerciali, erano gestite in modo autoritario e gerarchico (e, si potrebbe aggiungere, le cose sono cambiate poco). Il capitano poteva infliggere punizioni corporali pesantissime, sospendere i membri dell’equipaggio dalla retribuzione senza fornire motivazioni, richiedere lavori non previsti nel contratto originale. È pur vero che i marinai potevano ricercare giustizia presso i tribunali una volta tornati a terra, ma questi parteggiavano solitamente per i capitani, se non altro perché i giudici appartenevano alla loro stessa classe sociale.

Non soprende dunque che, lontani dall’autorità dominate sulla terraferma, i marinai abbiano creato una ben diversa organizzazione sociale fondata sui principi dell’uguaglianza. Prima di tutto, quella politica. «Ogni uomo ha un voto negli affari correnti», recita ad esempio il primo articolo del Codice vigente a bordo della nave del Capitano Bartholomew Roberts. Erano inoltre i membri dell’equipaggio ad eleggere il proprio capitano. Non solo, il comandante poteva anche essere revocato dai pirati stessi qualora venisse ritenuto inadeguato, corrotto o troppo poco intraprendente. Nel rudimentale sistema di controlli e contrappesi che contraddistingueva le repubbliche dei pirati, veniva eletto anche un quartiermastro che si occupava della gestione della nave e che poteva evitare che punizioni ingiuste fossero inflitte a singoli membri della ciurma. In un’epoca in cui le potenze europee facevano affari d’oro con la tratta degli schiavi,molte navi pirata accordavano uguali diritti anche agli uomini di colore.

Egualitarismo corsaro
Le comunità dei pirati erano insomma ben lungi dall’essere anarchiche: al contrario, esse svilupparono un sistema democratico da contrapporre a quello autocratico vigente nelle altre imbarcazioni. Di regole, i pirati se ne davano fin troppe: i loro codici proibivano ai marinai di praticare giochi d’azzardo e di fumare a bordo, di bere dopo il calar del sole e di tenere lumi accesi a tarda notte. Era anche proibito portare donne per evitare il sorgere di gelosie. La distribuzione dei compensi era di gran lunga più ugualitaria di quanto avvenisse nelle navi commerciali o da guerra: generalmente, il capitano e il quartiermastro ricevevano solamente il doppio degli altri pirati. Non solo, nel caso di incidenti sul «lavoro», le Repubbliche dei pirati contemplavano un sistema di assistenza che specificava metilocosamente quali fossero i compensi spettanti a ciascun membro che avesse perso una mano, una gamba o un occhio. D’altro canto, disertare nelmomento dell’arrembaggio era punito con la morte o con l’abbandono su un’isola deserta.


Se la pirateria offriva ai suoi membri molto di più di quanto venisse dato agli altri marinai, c’è da chiedersi non perché i pirati siano stati così tanti (le stime dicono due o tre mila agli inizi del Settecento), ma perché così tanti marinai non lo siano diventati. Forse perché quelli catturati venivano quasi sempre impiccati: chi ha contato le esecuzioni nel decennio tra il 1716 e il 1726 ritiene che ne vennero impiccati circa 400, una media di 40 l’anno. Ma se si considera quanto fosse alta la mortalità dei marinai ligi alle regole, bisogna concluderne che gli effetti «annuncio» e «reputazione » fossero ancora più forti per la forca che per la bandiera col teschio.

Il manifesto  9 novembre 2010

«L'autore, storico americano del capitalismo, spiega i principi fondamentali dell'economia e della democrazia moderne prendendo come modello gli equipaggi delle navi pirata del XVII secolo.»
Umberto Eco, L'Espresso


«Fa capire come la mano invisibile del mercato produca coesione sociale perfino tra i pirati.»
«Scientific American»

«I pirati erano capaci di beffarsi delle potenze del mondo e di elaborare insieme strumenti semiotici piuttosto sofisticati – e tutto allo scopo di minimizzare i costi e massimizzare i profitti delle loro... imprese. Qui valeva – ci dice Leeson – la legge dell'Uncino Invisibile di Adam Smith. La ricerca dell'utile personale di ciascun cittadino finiva per produrre la ricchezza della nazione; allo stesso modo, l'egoismo di ciascun pirata era funzionale all'economia di quello “stato in miniatura” rappresentato dalla nave di questi predatori del mare.»
Dall'Introduzione di Giulio Giorello 



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