Dario De marco -
Giudizio Universale 27/1/2012
Bolaño è morto, viva Bolaño
A nove anni dalla scomparsa dello scrittore, anche i suoi lasciti scritti sembrano arrivati alla fine. Frutto di un riassemblaggio filologico che però si attiene alla volontà dell'autore, I dispiaceri del vero poliziotto rinnova quel mondo labirintico che abbiamo imparato a conoscere. Ora più che mai toccherà ai lettori fare i detective (più o meno selvaggi)
E adesso come facciamo? Adesso che Roberto Bolaño è morto davvero, come facciamo? Perché, sia chiaro: è finita. Nove anni dopo la dissoluzione fisica dello scrittore cileno, oggi Bolaño muore davvero, perché si pubblica la sua ultima opera, I dispiaceri del vero poliziotto. D'ora in poi, no news. E già questa è stata un miracolo: benché più volte citato in varie interviste – e come enfaticamente riporta la prefazione, indicato in una lettera come “IL MIO ROMANZO” - il libro è il risultato dell'assemblaggio di varie fonti, dattiloscritti, file sul pc e capitoli stampati: con filologico zelo (che ai maligni solleverà più dubbi di quanti ne sopisce) la finale Nota editoriale ci spiega che i capitoli erano tutti scritti riscritti e corretti, e l'ordine in cui sono posti era proprio quello che stava nella testa dell'autore. La verità, non lo sapremo mai. La vera verità, non ci può interessare di meno. Ché lo stile, l'architettura delle opere (dell'opera) di Bolaño è così intrinsecamente labirintica, depistante, che avanzare sospetti di caos a babbo morto è semplicemente insensato. È come il discorso sui lirici greci: scrivevano veramente poesie fulminanti di tre righe, o ci sono arrivati solo frammenti di poemi più vasti? Ma chissenefrega, sono bellissimi, e tanto basta.
Basta quindi, finito tutto. E allora, come facciamo? Facciamo che torneremo a leggerlo, e rileggerlo e ri-rileggerlo fino allo sfinimento? Inseguendo quei personaggi - sempre gli stessi, sempre leggermente, orribilmente diversi - da un libro all'altro, dallo strepitoso I detective selvaggi al monumentale 2666, fin nelle pieghe dei cosiddetti minori, come i racconti Chiamate telefoniche. Facciamo che pur di evitare il distacco lo rileggeremo all'infinito, fino a impararlo a memoria, fino a citarlo senza accorgercene, fino a... capirci qualcosa? A orientarci alla perfezione nelle sue geografie? No, non sia mai detto: impossibile.
Lo scrittore Martin Amis, grande esperto di Nabokov, ha sottolineato un piccolo trucco o giochino che c'è in Lolita: nelle prime pagine vengono elencate una serie di donne e brevemente di ognuna si dice qual è stato il loro destino, tra cui la signora X; ma solo a pagina duecento e rotti del romanzo si nomina quello che sarà il marito di Lolita, con relativo cognome X. Ora, Amis racconta questo per dimostrare che Nabokov era così grande e consapevole della propria grandezza, che inserì questo enigma perché sapeva che Lolita sarebbe stato letto e ri-letto. A noi serve solo come exemplum: quello che in Nabokov è un caso unico, in Bolaño è così frequente che si può dire sia la trama stessa, la sostanza di cui sono fatti i suoi sogni, pardon libri.
È un continuo gioco di rimandi interni: personaggi accennati all'inizio che poi diventano decisivi nell'ultima parte, storie che non sembrano avere senso e invece poi sono il lato B di un'altra vicenda, digressioni (o invenzioni) storiche e letterarie e artistiche. E ovviamente i rimandi esterni, agli altri libri, al mondo immaginato da Bolaño. Torna il triste e sessualmente progressista professor Amalfitano; torna il mitico scrittore francese J.M.G. Arcimboldi, anzi torna la sua ombra, i suoi libri recensiti e le sue amicizie spulciate, fino ad avanzare una terribile ipotesi fanta-chirurgica sulla sua sparizione; tornano le case della borghesia europea e i deserti dello stato messicano di Sonora. E ovviamente sul più bello la storia finisce, così.
Perché il vero poliziotto non è un personaggio del romanzo - che pure brulica di agenti, militari e detective come un giallastro di serie zeta - ma siamo noi, sei tu. E il tuo dispiacere, la tua insanabile frustrazione è quella di non capirci una mazza, come dice lo stesso Bolaño: “è il lettore che invano cerca di mettere ordine in questo dannato romanzo”. Per cui becchiamoci questa, l'autore ci dà del poliziotto, e francamente solo da lui ce lo potevamo tenere.
Ma seriamente. La parola illuminante e definitiva la dice il prologo di Juan Antonio Masoliver Ròdenas, dove sottolinea che Bolaño “può osare quanto i contemporanei più audaci, e allo stesso tempo mantenere un livello di tensione tradizionale, grazie al carattere avventuroso”. Bolaño ottiene quello che a pochi è veramente riuscito (anche se di molti si è detto a sproposito, da Baricco ai Beatles): coniugare qualità e quantità, critica e pubblico, sperimentazione e successo, avanguardia e page-turn. Ma c'è di più.
Lo stesso J.A.M. Ròdenas rileva come Bolaño rappresenti in un certo senso la sintesi di '800 e '900, e insieme un passo in avanti. L'800 ha passato un secolo a costruire il grande edificio del romanzo: solido, onnicomprensivo, verosimile, verista, vero. Il '900 ci ha messo altrettanto per intaccare il moloch, minarlo, smembrarlo, infine distruggerlo. Poi arriva Bolaño che, aggirandosi tra le macerie, inizia a ricostruire qua un muretto, lì un soffitto; ma il muro è una quinta di cartone, e il soffitto un ologramma, o forse no.
Addio scrittore, continueremo a percorre le tue pagine, come in sogno. Ti salutiamo parafrasando un distico di Borges - che citare J.L.B., a proposito o sproposito, fa sempre figo:
Basta quindi, finito tutto. E allora, come facciamo? Facciamo che torneremo a leggerlo, e rileggerlo e ri-rileggerlo fino allo sfinimento? Inseguendo quei personaggi - sempre gli stessi, sempre leggermente, orribilmente diversi - da un libro all'altro, dallo strepitoso I detective selvaggi al monumentale 2666, fin nelle pieghe dei cosiddetti minori, come i racconti Chiamate telefoniche. Facciamo che pur di evitare il distacco lo rileggeremo all'infinito, fino a impararlo a memoria, fino a citarlo senza accorgercene, fino a... capirci qualcosa? A orientarci alla perfezione nelle sue geografie? No, non sia mai detto: impossibile.
Lo scrittore Martin Amis, grande esperto di Nabokov, ha sottolineato un piccolo trucco o giochino che c'è in Lolita: nelle prime pagine vengono elencate una serie di donne e brevemente di ognuna si dice qual è stato il loro destino, tra cui la signora X; ma solo a pagina duecento e rotti del romanzo si nomina quello che sarà il marito di Lolita, con relativo cognome X. Ora, Amis racconta questo per dimostrare che Nabokov era così grande e consapevole della propria grandezza, che inserì questo enigma perché sapeva che Lolita sarebbe stato letto e ri-letto. A noi serve solo come exemplum: quello che in Nabokov è un caso unico, in Bolaño è così frequente che si può dire sia la trama stessa, la sostanza di cui sono fatti i suoi sogni, pardon libri.
È un continuo gioco di rimandi interni: personaggi accennati all'inizio che poi diventano decisivi nell'ultima parte, storie che non sembrano avere senso e invece poi sono il lato B di un'altra vicenda, digressioni (o invenzioni) storiche e letterarie e artistiche. E ovviamente i rimandi esterni, agli altri libri, al mondo immaginato da Bolaño. Torna il triste e sessualmente progressista professor Amalfitano; torna il mitico scrittore francese J.M.G. Arcimboldi, anzi torna la sua ombra, i suoi libri recensiti e le sue amicizie spulciate, fino ad avanzare una terribile ipotesi fanta-chirurgica sulla sua sparizione; tornano le case della borghesia europea e i deserti dello stato messicano di Sonora. E ovviamente sul più bello la storia finisce, così.
Perché il vero poliziotto non è un personaggio del romanzo - che pure brulica di agenti, militari e detective come un giallastro di serie zeta - ma siamo noi, sei tu. E il tuo dispiacere, la tua insanabile frustrazione è quella di non capirci una mazza, come dice lo stesso Bolaño: “è il lettore che invano cerca di mettere ordine in questo dannato romanzo”. Per cui becchiamoci questa, l'autore ci dà del poliziotto, e francamente solo da lui ce lo potevamo tenere.
Ma seriamente. La parola illuminante e definitiva la dice il prologo di Juan Antonio Masoliver Ròdenas, dove sottolinea che Bolaño “può osare quanto i contemporanei più audaci, e allo stesso tempo mantenere un livello di tensione tradizionale, grazie al carattere avventuroso”. Bolaño ottiene quello che a pochi è veramente riuscito (anche se di molti si è detto a sproposito, da Baricco ai Beatles): coniugare qualità e quantità, critica e pubblico, sperimentazione e successo, avanguardia e page-turn. Ma c'è di più.
Lo stesso J.A.M. Ròdenas rileva come Bolaño rappresenti in un certo senso la sintesi di '800 e '900, e insieme un passo in avanti. L'800 ha passato un secolo a costruire il grande edificio del romanzo: solido, onnicomprensivo, verosimile, verista, vero. Il '900 ci ha messo altrettanto per intaccare il moloch, minarlo, smembrarlo, infine distruggerlo. Poi arriva Bolaño che, aggirandosi tra le macerie, inizia a ricostruire qua un muretto, lì un soffitto; ma il muro è una quinta di cartone, e il soffitto un ologramma, o forse no.
Addio scrittore, continueremo a percorre le tue pagine, come in sogno. Ti salutiamo parafrasando un distico di Borges - che citare J.L.B., a proposito o sproposito, fa sempre figo:
Bolaño, non cesso di vagare per le tue vie,
senz'ora e senza meta
senz'ora e senza meta
Giudizio Universale ---- - - -
2 commenti:
Caro Amico, devono ancora essere pubblicati: La Universidad Desconiscida, El Secreto del Mal, Tres e Perros Romanticos. Salutamm
si vero hai perfettamente ragione
carmelo
http://www.archiviobolano.it/
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