Massimiliano Ferrari -
Roberto BolañoFinzioni magazine 14 luglio 2012
Raramente capita nell'universo letterario che uno scrittore raggiunga vette di celebrità tali da accostarlo ad una rockstar o a un divo del cinema. Se vi dovesse capitare di stilare un compendio di regole base per cui si possa ambire ad entrare nell'empireo degli idoli immortali, Roberto Bolaño ne sarebbe un testimonial appropriato. Morto nel pieno di un'attività creativa "matta e disperatissima", passato attraverso una serie di mestieri marginali e improbabili, fu vendemmiatore, guardiano di un campeggio estivo e commesso di un negozio di souvenir per turisti, Bolaño è diventato negli anni successivi al 2003, anno della scomparsa, oggetto di un seguito di bolaniani affamati di qualsiasi cosa scritta dall'autore cileno, di aste milionarie per accaparrarsi i diritti dei suoi libri, di avidi e ammirati lettori che dopo aver letto anche solo una semplice frase scritta da lui, si sono dati ad una caccia compulsiva di ogni sua pagina, racconto, romanzo, intervista o saggio che fosse. Io sono tra questi devoti.
In vita un successo trascurabile, qualche premio in terra spagnola, una diffusione editoriale limitata e tante pagine scritte in una sofferta ma inestinguibile vena creativa. Molta della fama postuma deriva da una confusionaria lettura del Bolaño narratore e del Bolaño uomo. Qualcuno in virtù di leggende o semplici falsità ha voluto costruire l'immagine di un Bolaño maledetto, passato attraverso la lotta contro Pinochet, il carcere, la mai accertata dipendenza dall'eroina, il tutto farcito dagli elementi dei suoi libri, popolati spesso di reietti, poeti in bilico fra Eros e Thanatos, scrittori oscuri dall'identità sfuggente. Tutto questo, volenti o nolenti, ha portato Bolaño ad essere accostato a un Jim Morrison in salsa cilena.
Unico metro di giudizio sul quale tarare la fama di Bolaño dovrebbero essere i suoi romanzi e i suoi racconti, tra le vette raggiunte dalla letteratura degli ultimi, ci sbilanciamo senza timori, trenta quarant'anni fa. Bolaño ha reimpostato il canone narrativo latinoamericano. Con I detective selvaggi ha scritto il romanzo che chiude la stagione classica del romanzo sudamericano, mentre con 2666 ha posto le fondamenta per qualcosa di totalmente nuovo, un libro di quasi mille pagine che travalica qualsiasi genere codificato. Se I detective selvaggi rappresenta il legame con la poesia, quella folle e bastarda dei poeti infrarealisti, poeti messicani pazzi e disperati che Bolaño frequentò durante il suo periodo messicano, 2666 appare come una creatura romanzesca geneticamente modificata, "un'opera bestiale", una "scommessa" come la definì il suo stesso autore, un romanzo diviso in cinque parti, apparentemente senza un legame condiviso, percorso dalla presenza del misterioso scrittore Benno von Arcimboldi.
Servirebbero troppe parole per spiegare i libri di questo grandioso scrittore, ma sono sicuro che non sarebbero comunque mai abbastanza. Al di là di questi due immensi capolavori, Bolaño ci ha regalato anche racconti perfetti, piccoli romanzi che racchiudono un mondo in poco più di cento pagine. Penso alla Letteratura nazista in America, raccolta di false biografie di scrittori americani inclini al mostro nazista, a Notturno cileno dove in una notte di passione un gesuita cileno racconta la sua vita intrecciandola con la storia cilena recente oppure a Monsieur Pain, livida odissea che richiama atmosfere kafkiane in una Parigi sommersa dalla pioggia. Ma si potrebbero citare anche Il Terzo Reich, romanzo pubblicato postumo, che ripercorre atmosfere che potrebbero già definirsi tipicamente bolaniane: il gioco sospeso tra vita e morte, l'amore ossessivo e ferito, lo spettro del male e una strana inquietante fissazione per il nazismo. Credo che un ottimo metodo per avvicinarsi al continente Bolaño sia quello di leggersi qualcuna delle sue interviste. Ne ha concesse diverse e permettono di avvicinarsi alla presenza magnetica e stimolante di quest'uomo, alla sua capacità di coinvolgerci mentre racconta di un libro letto o spiega qualcosa riguardo a quelli scritti da lui. Il tutto condito, grazie a Dio, da un'ironia gustosa e maliziosa. Bolaño amava prendere di mira gli ambienti letterari paludati, gli schemi fissi dell'organigramma letterario, si prendeva gioco dei critici parrucconi e degli scrittori celebrati.
Non credo di poter dare migliore conclusione se non riproporre poche righe di 2666, semplici ma esemplari della condotta letteraria di Bolaño e di quello che lui intendeva come letteratura:
Il farmacista gli rispose che gli piacevano libri tipo la metamorfosi, Bartleby, Un cuore semplice, Canto di Natale [...] Sceglieva La metamorfosi invece del Processo, sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard et Pécuchet [...] Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette torrenziali, in grado di aprire vie nell'ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.
14 luglio 2012
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