domenica 1 luglio 2012

Un piatto forte della Cina Distrutta - Enrique Vila_Matas

  Enrique Vila-Matas  






testo pubblicato da Satisfiction   
 incluso nella raccolta di saggi
Bolaño selvaggio, ed. Senza Patria
traduzione Marino Magliani e Giovanni Agnoloni
il libro è una raccolta di saggi di importanti critici e scrittori latinoamericani sull'opera di Roberto Bolaño
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Diceva in una lettera Franz Kafka a Felice Bauer:
“In questo senso scrivere è un sogno più profondo. Come la morte. Nello stesso modo in cui non si tira fuori né si può tirare fuori un morto dal suo sepolcro, nessuno potrà strapparmi la notte dalla mia scrivania”.
Sono state queste parole a farmi venire in mente ieri Roberto Bolaño e la sua attitudine davanti alla vita e alla scrittura, il ricordo di tutti questi anni durante i quali egli si dedicò, senza nessuna tregua, e con intensità fuori del normale, a intrecciare sogno profondo, morte e calligrafia.

Anche Marguerite Duras, nelle ultime pagine di C’est tout, mi ha riportato alla memoria Bolaño: “Ci siamo. Sono morta. È finita”.(1) E poi, dopo una breve pausa: “stasera mangeremo qualcosa di forte. Un piatto cinese, per esempio. Un piatto della Cina distrutta”. (2) Rileggendo queste parole della Duras, volli intenderle nel senso che per lei la Cina era la sua infanzia totalmente rasa al suolo, devastatata, così devastata come la vita di Bolaño. E, poco dopo, il tema di fondo della morte, associato a questa idea di consumare qualcosa di molto forte, mi hanno fatto nuovamente pensare a questo scrittore cileno scomparso a Barcellona, questo calligrafo del sogno che ha lasciato ai suoi lettori letteratura dura e pura, un’opera creativa seria e senza mezze tinte, un piatto forte della Cina distrutta.

Tutto ciò che ieri leggevo o pensavo – la verità è che, come si vede, oggi succede lo stesso, per questo scrivo adesso su Bolaño – mi portava a collegarlo con lo scrittore scomparso. E così questa infanzia devastata chiamata Cina, per esempio, non ho tardato a compararla con l’opera di Georges Perec, l’autore che tanto affascinava Bolaño. Perec, quello delle associazioni deliranti. Perec, scrittore senza infanzia. Perec sventurato, in ogni caso morto prematuramente, come Bolaño. Perec, per il quale scrivere era strappare briciole precise al vuoto che si scava continuamente, lasciare in qualche posto un solco, una traccia, un’impronta o qualche segno. Perec, che venne al mondo nel 1938 e non andò mai in Cina e aveva uno stile piuttosto comico, malgrado fosse nato da una famiglia di ebrei polacchi che emigrarono in Francia e avesse perso il padre durante l’invasione tedesca del 1940 e la madre nel 1943 in un campo di concentramento. “Non ho ricordi dell’infanzia”, avrebbe scritto più tardi l’uomo che non andò mai in Cina, ma che aveva un passato devastato. Mi ricordo di una fotografia da cui emerge in modo particolare questo dramma. Fu scattata al 24 di rue Vilin a Parigi, dove lo scrittore nacque, qualche giorno prima che la strada scomparisse, e con essa i resti della casa natale, sulla cui facciata di mattoni si poteva leggere ancora questa scritta: Parrucchiera per signore. Sua madre, trentacinque anni prima, era stata la parrucchiera di quella strada nella periferia di Parigi, e Perec accompagnò un’amica a fotografare i resti del negozio materno, un po’ prima che gli escavatori facessero la loro apparizione e cancellassero dalla mappa la serpeggiante rue Vilin e l’intero quartiere.



Perec, che vide come spariva la sua casa natale e l’insegna sfumata del negozio di sua madre, e che alcuni anni dopo, a un’età precoce e in piena effervescenza creativa, scomparve anche lui, lasciando scritta un’opera che è una fonte inesauribile di avvenimenti misteriosi e sorprendente erudizione, un’opera mirabile, scritta in un serrato, intensissimo (come se gli mancasse il tempo) periodo creativo che mi ricorda l’intensità di scrittura del Bolaño degli ultimi anni, di un Bolaño, che, cosciente dell’ombra che la morte aveva proiettato su di lui, si dedicò febbrilmente, con ostinazione unica, all’eroico compito di scrivere, di riflettere la sua esistenza cieca, il suo caparbio itinerario di scrittore di razza, di scrittore cosciente del fatto che la morte non solo voleva radere al suolo i suoi ricordi dell’infanzia ma anche distruggere la Cina, e poi distruggere tutto.

Suppongo di non esagerare se dico che nei suoi ultimi anni, nessuno, la notte, era capace di far staccare Bolaño dal suo tavolo di lavoro. Precisamente, l’intensità febbrile dell’itinerario letterario dei suoi ultimi anni mi ricordano il tavolo roso dal tarlo che Perec, con il suo misterioso talento di saper trarre vantaggio da qualsiasi cosa, seppe trasformare in un oggetto affascinante:
“Fu allora che gli venne l’idea di sciogliere il legname residuo. Facendo così apparire l’arborescenza fantastica, la traccia precisa di quella ch’era stata la vita del tarlo in quel pezzo di legno, sovrapposizione immobile, minerale, di tutti i movimenti che avevano costituito la sua esistenza cieca, quell’ostinazione unica, quell’itinerario tenace (…), immagine a nudo, visibile, infinitamente inquietante di quel cammino senza fine che aveva ridotto il legno più duro a un reticolo impalpabile di gallerie di polvere”. (3)
Non mi riesce difficile associare questo intenso e tenace itinerario letterario dell’ultimo Bolaño con l’intensità di scrittura del Perec dei suoi ultimi anni, il Perec che Bolaño ammirava e conosceva molto bene. Una rete impalpabile di precarie gallerie unisce il secondo blocco de I detective selvaggi con le mille e una storia di La vita, istruzioni per l’uso (4) del cittadino Perec. Queste gallerie si sono rese ieri totalmente visibili nel mio studio quando, per puro caso, mentre cercavo alcune carte, apparve tra esse una lettera del 1997 che Bolaño mi aveva scritto in una pausa durante la lettura di un libro che io avevo appena pubblicato:
“Conosco anche questa foto: una facciata di mattoni e una porta fatta con quattro tavoloni di legno, in cima alla quale, sopra i mattoni, c’è dipinta la scritta Parrucchiera per signore. Per adesso è il testo del tuo libro che più mi ha commosso. Mi ha fatto piangere e mi ha fatto ricordare il grande Perec, il più grande romanziere della seconda metà di questo secolo”.
Non ricordavo affatto quella lettera, e ieri mi sono veramente commosso nel ritrovarla; mi ha fatto pensare a certe istruzioni per l’uso della vita che Bolaño ci ha lasciate. Una di queste istruzioni mi porta a evocare Montaigne, che, quando era giovane, credeva “che lo scopo della filosofia fosse insegnare a morire” e che, con l’età, finì per correggersi e disse: “che la vera meta della filosofia è insegnare a vivere”, che è ciò a cui, mi pare, si dedicasse Bolaño negli ultimi anni della sua esistenza. “Per Roberto”, ha scritto Rodrigo Fresán, “essere scrittore non era una vocazione, era un modo di essere e di vivere la vita”.

Viveva la vita in una maniera tale che ci insegnava a scrivere, come se ci stesse dicendo che non bisogna mai perdere di vista che vivere e scrivere non ammettono scherzi, malgrado uno sorrida. Sorrido in maniera infinitamente seria quando ricordo che negli ultimi tempi molti dei testi che mi disponevo a inviare per posta perché fossero pubblicati, erano sottoposti, forse per un eccesso di zelo da parte mia, a una revisione dell’ultima ora, provocata dai miei improvvisi sospetti che magari Bolaño li vedesse e li leggesse. Grazie a ciò, grazie al fatto che avevo l’impressione che Roberto leggesse tutto, vissi in un uno stato di costante rigore letterario, perché lui aveva alzato l’asticella della qualità molto in alto e io non desideravo deluderlo, per esempio, con qualche testo trascurato, con uno di quei scritti nei quali, per mille motivi differenti, uno non brilla a sufficienza o, che è lo stesso, non si impegna a dovere. Ciò finì per trasformare alcuni miei testi in storie interminabili che non facevano altro che crescere e crescere, soprattutto quando più mi ricordavo dello sguardo onnipresente di Bolaño: storie che diventavano infinite e si trasformavano in detective selvaggi. E così io fui testimone, per esempio, di come un testo (che per essere destinato a una rivista di serie C, consideravo secondario) cominciasse a crescere in diverse direzioni e si trasformasse in un romanzo, il migliore dei miei. E tutto per la maledetta altezza alla quale Bolaño aveva collocato l’asticella.

Se c’è una cosa che ho sempre apprezzato, soprattutto riguardo a quell’intransigente “asticella” e alla sua altezza, è il fatto che l’asticella comportava una lista di impresentabili, di scrittori o furbastri (fa lo stesso) che, vista l’allarmante situazione della letteratura, “sarebbe meglio mandare nella Corea Del Nord per almeno nove anni”, (5) e non conceder loro, per tutto il tempo, nemmeno un permesso di fine settimana per la “Cina distrutta”. Anche se questi impresentabili si sentiranno oggi felici se non di più, felici con i loro opportunisti e mediocri canti letterari di sempre, e aggiungo, alcuni alleviati dalla morte di Bolaño. Già, Juan Ramón Jiménez temeva questa continuità della casta degli analfabeti e degli arrivisti, degli impresentabili, quando diceva: “Io me ne andrò, e resteranno gli uccelli cantando”.

Con la morte di Bolaño, a parte le mie pene di amico, con la rabbia per la conversazione letteraria interrotta per sempre, sono rimasto in situazione di allerta davanti a uno dei problemi che Bolaño nell’assenza (e non nella distanza) mi pone: un certo timor panico che, nel momento meno indicato, la sua non presenza possa condurmi a un certo rilassamento nella scrittura, sebbene a questo problema creda di scorgere un rimedio: provare a bruciare (nei miei scritti) come bruciava lui, perché in nessun altro modo, un giorno, le tenebre potranno trasformarsi in chiarezza. Così vivo adesso: cercando di impedire che questa assenza mi faccia tornare a uno stato di minore attenzione davanti ai pericoli che minacciano uno scrittore serio. Così vivo adesso. Cosciente del fatto che devo continuare a vivere, che devo vivere, per esempio, per continuare a scrivere con grande intransigenza (che è il modo migliore per poter individuare sempre gli impresentabili) o, semplicemente, per poter dire che mi ha commosso ieri l’aver trovato per caso la lettera di Bolaño con la confessione che, davanti alla Cina distrutta di Perec, lui aveva pianto.

La vita non ammette scherzi, sebbene uno sorrida. Come direbbe Nazim Hikmet:
“Devi vivere con tutta la serietà, come uno scoiattolo, per esempio; cioè senza aspettare nient’altro e nient’altro che il vivere, cioè, il tuo compito si riassume in una parola: vivere (…) succede, per esempio, che siamo molto malati, che dobbiamo sopportare una difficile operazione, che ci sia la possibilità che non ci si torni a rialzare dal tavolo operatorio. Nonostante sia impossibile non sentire la tristezza di andarsene prima del tempo, continueremo a ridere per l’ultima barzelletta, guardando dalla finestra per vedere se il tempo continua piovoso, aspettando con ansia le ultime notizie di stampa”.
Vale a dire, stiamo dove stiamo, dobbiamo vivere. Credo che Bolaño, calligrafo del sogno, l’avesse capito alla perfezione, perché scriveva senza aspettarsi niente fuori, e niente al di là del vivere, e in questa disperazione risiedeva a volte la grande forza della sua scrittura, la serietà eccezionale di molti momenti della sua scrittura del piatto forte della Cina distrutta: una scrittura cosciente del fatto che bisogna sentire la tristezza della vita, ma che allo stesso tempo uno può amarla, amare con intensità questa tristezza (che alcuni chiamano scrittura e altri lacrime perdute), amare il mondo in ogni istante, amarlo tanto coscientemente da poter dire: abbiamo vissuto.

Note
1 – M. Duras, C´est tout (arnoldo Mondadori editore, 1996, pag. 63; trad. D. Feroldi).
2 – Ibidem
3 – G. Perec, La vita, istruzioni per l´uso (BuR, 2005, pag. 133;
trad. D. selvatico estense).
4 – Op. cit.
5 – La citazione è tratta da un´intervista a Roberto Bolaño al quotidiano cileno La tercera, rilasciata solo dieci giorni prima di essere colpito dallo shock epatico che lo portò alla morte. Il riferimento, in particolare, era a Luis Sepúlveda. Per il testo integrale dell´intervista, tradotta in italiano da Carmelo Pinto, v.http://www.archiviobolano. it/bol_int_gomez.html (n.d.t.).




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