Massimo Rizzante
Nella discussione che è seguita alla pubblicazione della seconda serie di tre poesie su nazione indiana
( puoi leggere anche qui la prima e la seconda serie) è intervenuto massimo Rizzante citanto un frammento di un testo che aiuta a capire la direzione della sua ricerca poetica:
la poesia di Massimo Rizzante
… Così scoprii uno dei miei paradossi fondamentali: sulla soglia della stanza del drago, dove ha residenza fissa la mia parte poetica, c’è un usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, ricordi osceni, imprevedibili banalità, il quale pensa che ogni individuo è intoccabile in virtù della sua infima diversità rispetto a tutti gli altri individui. In altre parole, il custode della mia stanza poetica è un uomo prosaico.
Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro scopritore di versi (una parte di me, solo una parte) e sul mio contrastato rapporto con l’Italia: «vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe». Sono un poeta che legge soprattutto romanzi non italiani e scrive saggi, la cui prima redazione è sempre in francese.
Per quanto non possegga alcuna certezza su quello che scrivo, mi sento di dire che i miei versi tendono a una storia e a una geografia molto ampie. La mia poesia ambirebbe a coniugare il colloquio con il passato – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», a una sorta di scoperta poetica dei luoghi, che è spesso scoperta di voci poetiche. Ciò significa da una parte mettersi in una prospettiva storicamente millenaria e per forza di cose escatologica (esiste una poesia non escatologica?), dall’altra rinunciare a scavare dentro la miniera della sola tradizione italiana, atto che comporta molti rischi, non ultimo quello dell’eclettismo. Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti posti all’interno di un’opera poetica hanno per me proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato io, estinguere quella specie di monarchia chiamata letteratura nazionale. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e tradotto da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto quasi tutto durante il suo esilio in Argentina tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza intitolata Lo scrittore argentino e la tradizione nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? [...] Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e «multiculturale», non hanno forse assunto un significato ancora maggiore?
© Massimo Rizzante
scuola di calore è una raccolta di poesie di prossima pubblicazione
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