Franco Farinelli
2010
Geometrie del potere
Vi è stato un tempo, ricordava Osip Mandel’Stam, in cui chi non aveva viaggiato non osava scrivere. Erano ancora i bei tempi in cui, teste Novalis, l’Europa era «un continente di forma umana», quella raffigurata nelle mappae mundi che ornavano le pareti delle chiese medievali, dove tra la forma della Terra e la figura di Cristo che l’abbracciava non era possibile alcuna distinzione, e perciò ogni rappresentazione geografica era ancora riconosciuta come l’ostia del corpo terrestre, dunque l’autentica Terra — spiegatemi altrimenti perché
ancora oggi crediamo tanto ciecamente alle mappe, ci affidiamo senza alcuna riserva, con vero atto di fede, al loro dettato che nessuno osa contraddire. A quel tempo, il Paradiso terrestre era ancora un luogo segnato sulle carte, sempre in alto accanto alla testa del Signore, e tale presenza assicurava non soltanto che ogni viaggio era possibile ma anche che l’intera esistenza si riduceva a un viaggio, all’interno di un ambito esso stesso per definizione mobile, anzi elastico, soggetto a continui avanzamenti e regressioni, com’era allora la cristianità.
ancora oggi crediamo tanto ciecamente alle mappe, ci affidiamo senza alcuna riserva, con vero atto di fede, al loro dettato che nessuno osa contraddire. A quel tempo, il Paradiso terrestre era ancora un luogo segnato sulle carte, sempre in alto accanto alla testa del Signore, e tale presenza assicurava non soltanto che ogni viaggio era possibile ma anche che l’intera esistenza si riduceva a un viaggio, all’interno di un ambito esso stesso per definizione mobile, anzi elastico, soggetto a continui avanzamenti e regressioni, com’era allora la cristianità.
Il regno dello spazio
La consapevolezza dell’essenza mobile della cristianità non resiste in Occidente all’esclusione del Paradiso dal circuito terrestre, alla sua espulsione dall’orbe abitabile e conoscibile, e perciò cartografabile, che avviene a metà del Quattrocento. Colombo ancora crede, giunto alle foci dell’Orinoco, di essere all’ingresso dell’Eden. Ma poco più di un secolo dopo, Sir Walter Raleigh, che il corso dell’Orinoco avventurosamente e sanguinosamente lo risale, si sottomette a Westminster alla decapitazione esclamando: «Non ha molta importanza dove la testa sia, ,purché il cuore sia nel giusto», in aperta violazione della consuetudine secondo cui il condannato guardava a oriente, a segno dell’imminente redenzione o almeno della sua speranza. E la tragica nascita di quella che Terry Eagleton chiamerebbe la moderna “legge del cuore”, che consiste nel mettere da parte, in base al giudizio estetico, cioè fondato sulle sensazioni, ogni autointeressata razionalità in nome dei generali interessi dell’umanità, sotto- mettendo la propria individualità al giudizio di una comune sensibilità, di un idem sentire civile. Ma è anche la fine dell’idea, condivisa da Aristotele, che il mondo si componga di luoghi. Di parti qualitativamente l’un l’altra irriducibili e perciò in nessun modo equivalenti.
L’espulsione del Paradiso, il luogo dell’inizio dell’umanità, dalla figura terrestre implica che quest’ultima non può più accogliere al proprio interno, come prima accadeva, ambiti che sono allo stesso tempo eventi: per la prima volta, invece, la dimensione temporale della realtà (il saeculum) e quella spaziale (il ,mundus) risultano sistematicamente distinte, anzi autoescludentesi. Così, di norma, il tempo sulla mappa non compare più, e lo spazio, appunto i regno dell’equivalenza generale, resta finalmente padrone del campo per affermarsi esattamente nella forma tolemaica, cioè geometrica, funzionale alla costruzione del Nuovo Mondo, del mondo in cui viviamo. Tale mossa ha escluso dal significato della rappresentazione sulla mappa ogni riferimento al passato e al futuro, alla memoria e alla profezia, limitando- ne il senso a quello della pura presenza che è ancor oggi il primo prodotto, sul piano ontologico, della riduttiva produzione cartografica della realtà.
Il prezzo dell’operazione è stata, per la cultura occidentale e per i suoi modelli ideali la riduzione all’immobilità del soggetto, paradossalmente proprio all’inizio di questa che chiamiamo ancora l’epoca moderna delle grandi esplorazioni geografiche. Quest’ultima esprime appunto il passaggio dal tempo della mobilità diffusa e generalmente e normalmente praticata (il tempo della concezione del soggetto come entità per natura mobile) al tempo della concezione statica del soggetto stesso, tempo che è ancora il nostro: in cui lo spostamento, il viaggio, la migrazione sono ancora considerati semplici accidenti dell’esìstenza umana, eventi fortuiti e accessori, e non pratiche costitutive dell’dentità dei soggetti, anzi di ogni espressione culturale.
....l’antropologia odierna .. considera il soggetto non più espressione di un campo delimitato. ma piuttosto di una serie di localizzazioni mutevoli, non più il prodotto di una situazione statica ma di un processo dinamico: attore, insomma non più interno a un ambito circoscritto da frontiere, ma una zona di contatto più o meno estesa, composta da relazioni, interazioni e comportamenti temporanei e interconnessi, di solito fondati su rapporti di potere radicalmente asimmetrici, cioè disuguali, e su limiti fluidi e mobili
Il soggetto immobile
La storia di Squanto. cosi come è da James Clifford. esprime meglio il processo in questione. Quando nel novembre del 1620, i Padri Pellegrini sbarcarono nel Mayflower per fondare a Plymouth ne Massachusetts la prima permanente colonia inglese in America, trovarono sulla spiaggia Squanto, membro della tribù dei Patuxet che parlava perfettamente l’inglese perché era appena tornato dalle Isole Britanniche. Senza il suo aiuto, sarebbe stato molto difficile per i coloni superare il loro primo freddissimo inverno americano. Il che non toglie che la loro immediata reazione fu di estremo sconcerto per l’incontro con un indigeno cosi stranamente familiare, e proprio in virtù di tale familiarità paradossalmente ancora più inquietante, perché dotato di una diversità assolutamente inaspettata, superiore a ogni immaginazione: quella al cui interno il massimo dell’alterità assume inopinatamente qualche tratto, se non l’aspetto, di quel che invece crediamo ci distingua.
La storia di Squanto. cosi come è da James Clifford. esprime meglio il processo in questione. Quando nel novembre del 1620, i Padri Pellegrini sbarcarono nel Mayflower per fondare a Plymouth ne Massachusetts la prima permanente colonia inglese in America, trovarono sulla spiaggia Squanto, membro della tribù dei Patuxet che parlava perfettamente l’inglese perché era appena tornato dalle Isole Britanniche. Senza il suo aiuto, sarebbe stato molto difficile per i coloni superare il loro primo freddissimo inverno americano. Il che non toglie che la loro immediata reazione fu di estremo sconcerto per l’incontro con un indigeno cosi stranamente familiare, e proprio in virtù di tale familiarità paradossalmente ancora più inquietante, perché dotato di una diversità assolutamente inaspettata, superiore a ogni immaginazione: quella al cui interno il massimo dell’alterità assume inopinatamente qualche tratto, se non l’aspetto, di quel che invece crediamo ci distingua.
L’insegnamento che gli studiosi dei processi culturali ricavano dalla storia di Squanto si condensa nella messa in discussione delle strategie che designano i non-occidentali come “nativi”. Tale definizione viene decisamente respinta dall’antropologia odierna che considera il soggetto non più espressione di un campo delimitato. ma piuttosto di una serie di localizzazioni mutevoli, non più il prodotto di una situazione statica ma di un processo dinamico: attore, insomma non più interno a un ambito circoscritto da frontiere, ma una zona di contatto più o meno estesa, composta da relazioni, interazioni e comportamenti temporanei e interconnessi, di solito fondati su rapporti di potere radicalmente asimmetrici, cioè disuguali, e su limiti fluidi e mobili.
Per Arjun Appadurai, i nativi, gli indigeni, non sarebbero mai davvero esistiti, se per nativo si intende un essere umano confinato nel (e dal) luogo in cui si trova, e non contaminato da scambi materiali e ideali con il resto del mondo. Quest’ultima concezione sarebbe il risultato di quello che egli chiama il «congelamento metonimico», per cui una parte o un aspetto della vita del soggetto (in questo caso la condizione immobile) viene scambiato per la totalità, e finisce per contrassegnarlo dal punto di vista della concettualizzazione. Fin qui Appadurai. Quel di cui egli non si avvede riguarda l’origine di tale paralisi di cui la cultura occidentale serba ancora vivissimo ricordo.
...proprio attraverso l’esportazione dello schema prospettico lineare, tale modello sarebbe diventato il modello dello Stato territoriale moderno centralizzato dello Stato così come noi oggi lo conosciamo appunto fondato sulla paralisi ideale dei sudditi, sulla supposta staticità, cioè immobilità, dei suoi abitanti. Di qui l’estrema difficoltà che ogni Stato incontra ai giorni nostri nel mettere a punto politiche minimamente decenti nei confronti dei flussi migratori, composti da soggetti che per natura contraddicono il fondamentale comandamento dell’immobilità
Uno Stato fondato sulla paralisi dei sudditi
Ha scritto Jacob Burckhardt che «lo Stato è un’opera d’arte», e l’espressione va intesa alla lettera: senza la prospettiva, il moderno Stato europeo non esisterebbe, o avrebbe una forma completamente diversa, perché proprio la rettilinea sintassi prospettica garantisce la traduzione in spazio del territorio.
Spiegano gli storici dell’economia, e meglio e più di tutti lo ha spiegato Giovanni Arrighi, che, a differenza ad esempio di quello genovese, il ciclo della premoderna accumulazione capitalistica fiorentina era di natura territoriale: consisteva nella cattura della regione circostante, nell’annessione delle genti e delle terre all’intorno. Lo stesso Ospedale degli Innocenti serviva alla realizzazione di tale progetto, era una struttura di servizio non soltanto per la popolazione della città ma anche per quella della campagna, era dunque un’opera pubblica il cui scopo era quello di fare di Firenze un centro di richiamo, dilatando la presa urbana molto al di là dalle stesse mura fiorentine. Trapiantato nella Francia del Seicento proprio attraverso l’esportazione dello schema prospettico lineare, tale modello sarebbe diventato il modello dello Stato territoriale moderno centralizzato dello Stato così come noi oggi lo conosciamo appunto fondato sulla paralisi ideale dei sudditi, sulla supposta staticità, cioè immobilità, dei suoi abitanti. Di qui l’estrema difficoltà che ogni Stato incontra ai giorni nostri nel mettere a punto politiche minimamente decenti nei confronti dei flussi migratori, composti da soggetti che per natura contraddicono il fondamentale comandamento dell’immobilità. E questo perché l’assunzione del modello prospettico-spaziale e dei suoi presupposti, imposta e veicolata dalla riduzione della terra alla sua immagine cartografica (come Heidegger è stato a un passo dal comprendere), ha prodotto un pensiero da cui soltanto adesso accenniamo a uscire ma che come “discorso sul metodo”, attende ancora di essere compreso fino in fondo: muovendo dal riconoscimento che il metodo in questione significa, alla lettera, appunto ciò che viene dopo (metà) il viaggio e l’esercizio del cammino a piedi (hodòs), e al viaggio stesso si sostituisce. Tornando a riconoscere, insomma, che ogni metodo, a partire da quello di Cartesio, non è altro che il protocollo del dettato cartografico, della mappa che, come la celebre carta dell’impero di di cui favoleggiava borges, si è davvero sostituita con successo non soltanto alla faccia della Terra ma anche alla nostra mente. E che da allora in poi rende impostile ogni originario rapporto con la realtà, ridotta al sempre meno visibile diaframma interposto tra la mappa che è nella nostra mente e quella che corrisponde all’insieme di ciò che ci circonda.
E esattamente dal combinato disposto di queste due mappe, dunque dal mapping come modello di conoscenza, che oggi, all’epoca di quel Eric J. Leed chiama il turismo globale, tenta disperatamente di evadere ogni viaggiatore in grado di ricordare come il viaggio fosse un tempo il modo per i maschi di raggiungere l’immortalità. Quello stesso tempo a a cui Osip Mandel’Stam si riferiva . «Noi viviamo senza più sentire il paese sotto il nostro piede».
Cosi iniziava l’epigramma contro Stalin che a Mandel’Stam costò la vita — nel 1938, Rechka, vicino Vladivostok: tecnicamente un “campo di transito” all’interno dell’arcipelago dei gulag staliniani.
Cosi iniziava l’epigramma contro Stalin che a Mandel’Stam costò la vita — nel 1938, Rechka, vicino Vladivostok: tecnicamente un “campo di transito” all’interno dell’arcipelago dei gulag staliniani.
© Franco Farinelli
Franco Farinelli ha insegnato per anni presso le università di Ginevra, Los Angeles, Berkeley. Oggi è Presidente del corso di laurea in Geografia e Processi territoriali dell'Univerità di Bologna. Tra i suoi libri , segnaliamo: la crisi della ragione cartografica, (Einaudi, 2009); I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna (Academia Universa Press) L'invenzione della Terra, (Sellerio, 2007), (Einaudi 2003). ha realizzato trasmissioni per radio due (alle 8 della sera ) Il Globo, la mappa, il Mondo e l'ammiraglio delle zanzare;
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