lunedì 27 settembre 2010

LE CONFESSIONI LETTERARIE DI JUAN VILLORO

  intervista a Juan Villoro di Marco Dotti

23 settembre 2010




Un paese perennemente in bilico tra Carnevale e Apocalisse, segnato ormai da diversi anni da un clima di violenza e di paura. Parla Juan Villoro, autore di una raccolta di racconti, I colpevoli, in cui cerca di descrivere un Messico fuori dagli stereotipi. Al paese latinoamericano è dedicato il festival di letteratura e traduzione «Babel» che si inaugura questa sera a Bellinzona

Scrittore e sociologo, giornalista e professore universitario, Juan Villoro è uno degli intellettuali più attenti alla realtà messicana. Nato nel 1956, appassionato cronista di musica e di calcio, Villoro ha di recente pubblicato, per le edizioni Cuec di Cagliari, I colpevoli (traduzione di Maria Cristina Secci, pp. 136, euro 11). Una raccolta di racconti che mette in scena le vite, a modo loro «colpevoli», di un calciatore in declino, di uno sceneggiatore in preda a crisi isteriche, di un cantante sull'orlo del baratro, protagonisti colti all'apice dei loro conflitti personali, sia che decidano di commettere un omicidio, di tradire un amico o di girare una scena di nudo che potrebbe rovinargli la carriera. Lo incontriamo alla vigilia dell'incontro che terrà sabato 25 al festival Babel di Bellinzona.


Da poco lei ha ricevuto un importante premio per il suo lavoro giornalistico sul narcotraffico. Non passa giorno senza che arrivino notizie dal Messico, sull'aumento della violenza, sulle cifre - anche queste, sempre in aumento - del traffico di stupefacenti, corruzione, donne scomparse, devastazione delle culture. Come è la situazione in Messico, oggi?
Per almeno quarant'anni, il traffico di droga ha prosperato in Messico. La causa principale è evidente: gli Stati Uniti sono il più grande consumatore di droghe nel mondo e noi siamo i «vicini della porta accanto». A poco a poco, però, la droga è diventata una sorta di «normale parallela», un mondo in cui i trafficanti hanno prosperato senza nessuno a fermarli. Oggi, vi è uno stile di vita specifico del crimine organizzato. Uno stile di vita con la sua musica, i suoi capi di abbigliamento, la sua architettura, perfino i ristoranti tipici degli spacciatori. Si stima che almeno il 10 per cento del denaro circolante in Messico provenga dal narcotraffico.

Non è cambiato proprio nulla, in questi quarant'anni?Un cambiamento, sì, c'è stato: nel 2006 il presidente Calderon ha deciso di affrontare il problema. Sembra che lo abbia fatto con una strategia ben pianificata, ma per scopi di distrazione politica. Arrivò infatti alla presidenza molto contestato dall'opposizione, che lamentava brogli elettorali. A quattordici giorni dal suo insediamento, ha avviato una operazione in tutto il paese. Invece di individuare le reti di finanziamento e di complicità con il governo, ha cercato un confronto diretto. È stato come accendere un fiammifero per vedere se in giro c'era polvere da sparo. L'esplosione è stata tremenda: in quattro anni ci sono stati circa trentamila morti, negli ultimi sei mesi sono stati uccisi nove sindaci. Il mondo del narcotraffico ha reagito con atti terroristici che minacciano la popolazione civile. Il presidente è riuscito a distogliere l'attenzione, ma a un costo elevatissimo. L'unico effetto diretto è che la droga e le armi sono diventate più costose, a vantaggio degli intermediari. Recentemente, sono stati arrestati alcuni «dirigenti» importanti, ma il problema non finisce certo qui. Si è proposta la legalizzazione delle droghe, ma il governo è contrario. Questo sarebbe un passo importante per «rovinare» il mercato della criminalità. Tuttavia, la soluzione è più complessa e ha a che fare con l'educazione e la cultura. Oggi, in Messico ci sono sette milioni di giovani adulti che non hanno lavoro o istruzione. La soluzione migliore offerta loro per uscire dalla fame e provare un senso di appartenenza è il narcotraffico, con il suo mondo, i suoi sistemi di valore. Questo è il vero problema. Abbiamo bisogno di creare fonti alternative di sostentamento che non abbiano a che fare con la violenza. L'istruzione è fondamentale. Non possiamo pensare che il Messico si salvi con i proiettili.

Come è l'atmosfera oggi nel paese?
 La paura è diventata la nostra seconda natura. Nessuno ha più fiducia in niente. Il narcotraffico si fa sentire due volte: nella realtà e nella comunicazione. Stampa, radio e televisione hanno fatto da cassa di risonanza e non sono stati in grado di costruire un discorso alternativo che promuova la speranza. Quando tutti i giorni vedi immagini di gente decapitata, inizi a pensare che il paese è ingovernabile, che lo spargimento di sangue è un fatto normale. Dobbiamo sottolineare che la vita si perde nel sangue: solo con una comunicazione responsabile, avremo meno paura.

Il suo Los culpables ha ricevuto ampio consenso di critica e pubblico, anche in Europa. Chi sono i colpevoli cui allude il titolo del libro?
I colpevoli è composto da sette storie scritte in prima persona, nelle quali vari personaggi confessano qualcosa. Nella religione, la confessione serve per espiare la colpa e ricevere il perdono. Invece, in letteratura ciò che dici ti responsabilizza, ti rende «colpevole». I personaggi sono diversi (un mariachi, un dirigente su un aereo, uno sceneggiatore, l'uomo che pulisce i vetri su un palazzo ...), ma tutti vogliono giustificarsi. Cercando di spiegare la loro situazione, rivelano cose che non pensavano di dire e queste confessioni involontarie li portano a essere condannati come «colpevoli di letteratura».

L'etnologo norvegese Carl Lumholtz, alla metà del XIX secolo, scrisse un libro che è ancora emblematico, anche per il suo titolo: Mexico desconocido, «Messico sconosciuto». A decenni di distanza, Ernst Junger poteva ancora tranquillamente affermare che il Messico era un enigma, un nuovo Egitto in cerca del suo Champollion. Perché l'immaginario europeo è così legato al Messico?
 Il Messico è un paese in cui il Carnevale coesiste con l'apocalisse. Magia e inferno si incontrano, come nel romanzo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Ciò accade, ma c'è un po' di folklore in questa immagine del mio paese. Nei Colpevoli mi sono occupato della questione in un racconto (Amici dei messicani). Lì, un giornalista americano si reca in Messico in cerca di cose terribili da raccontare; anela a visioni che abbiano la carica dei dipinti di Frida Kahlo e le pellicole di Buñuel, ma la sua sete di esotismo lo mette nei guai. Senza negare che il Messico sia diverso, ho voluto ironizzare sugli stereotipi di chi si vede da lontano.

Enrique Vila-Matas, nel suo ultimo libro, mette in gioco la fine della «letteratura». Lei pensa che scomparirà, o è uno stereotipo, su cui ironizzare alla maniera di Vila-Matas? 
 In Dublinesque (Feltrinelli, 2010) Vila-Matas tratta di un editore che pretende di celebrare i funerali del libro, ma questo lo porta a capire come ci siano cose che appaiono solo attraverso i libri, e la sepoltura diventa una epifania. Personalmente, sono d'accordo con lui. Del resto, se il libro fosse inventato oggi, sembrerebbe un miglioramento del computer: è caldo, serve come decorazione, stimola il tatto e l'olfatto, ci si può scrivere sopra, senza contare che non si scarica, non ha bisogno di batterie, non dipende da un sistema operativo che potrebbe diventare obsoleto in pochi mesi.



Il manifesto   - - - -
© Marco Dotti








Juan Villoro, I colpevoli, Cuec editore, 2009
 

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