Gianmaria Nerli
16 settembre 2010
il primo grande narratore
Quello che probabilmente è il primo grande narratore del secolo XXI purtroppo è già morto: Roberto Bolaño ci ha lasciato all’età di 50 anni con una quindicina di opere, tra poesie racconti e romanzi, scritte approssimativamente negli ultimi 10 anni di vita. Ma è soprattutto la sua opera maggiore, uscita postuma nel 2004, un anno dopo la sua morte, che lo propone, tra gli scrittori contemporanei, come il primo esempio di grande narratore del secolo XXI.
2666 è probabilmente il romanzo che segna il decennio, a essere cauti, e non solo per l’enorme successo di critica e pubblico che ha ricevuto in America Latina, Spagna, Stati Uniti, e che sta arrivando anche nel resto d’Europa, lo è innanzitutto perché in qualche modo rinnova le ambizioni del romanzo, smarcandosi con eleganza e intelligenza dalla gran massa di teorie, speculazioni e vulgate critiche che hanno, usiamo qualche eufemismo, castrato gli ultimi decenni del Noveceto. È un romanzo che rinnova principalmente l’ambizione di raccontare non il proprio piccolo mondo, ma molti mondi del presente, non rinunciando a una scommessa di tipo letterario, estetico, formale: da tempo un’opera-romanzo non era così popolata di voci, o raccontava così tanti mondi, culture, epoche, racchiudendo tutto in un progetto poetico allo stesso tempo di alta qualità letteraria e di sostanziosa piacevolezza.
Ma prima di parlare di Bolaño e del suo talento – gli dedicherò interamente il prossimo post – vorrei accennare alle grandi narraXXIoni, ovvero le grandi narrazioni con cui si è aperto il nuovo secolo. Certo, non si può dire se è una tendenza che s’imporrà, o se al contrario è solo il riflesso di un desiderio, quello di ritrovare una letteratura che riesce a contare oltre che raccontare, ma è indubbio che dopo il 2000 sono accadute, non solo in ambito letterario, opere che ambiscono, diciamolo così, a entrare nella sostanza del loro presente, o del loro presente passato. Di queste opere, di volta in volta, si occuperà questo blog; tentando incursioni, come è ovvio, nella letteratura, ma anche nel mondo dell’arte, del cinema, del teatro, ecc. Non tanto per teorizzare un modello, quanto più semplicemente per tracciare i contorni di una poetica variegata e molteplice che rappresenta forse il meglio di questi anni, e di cui l’effervescente cultura italiana potrebbe inalare qualche salutare effluvio balsamico.
Ma innanzitutto, cosa è una grande narraXXIone? Inutile dire che si riprende in modo ironico, e un “po’ di traverso” avrebbe detto Tozzi, la massima di Lyotard che ci ha guidato attraverso le selve oscurissime dell’ultimo Novecento: salvo dire che qui si vogliono risuscitare grandi narrazioni – e non semplicemente narrazioni grandi, che queste già son risuscitate da tempo, diffondendosi nelle nostre librerie come gramigna – secondo una nozione garbatamente diversa. Si vola, come è ovvio, un po’ più basso, e piuttosto che preoccuparci di universali meta-narrazioni, ci accontentiamo delle narrazioni che hanno una meta, questa sì di valore universale. Vale a dire quei racconti che non assumono più Lyotard e i suoi derivati come alibi per rinunciare al racconto e cercare rifugio nel narcisismo, nell’intrattenimento, nell’erudizione, o per consegnarsi a un eterno tramestare nel proprio verde e luminoso centimetro quadrato.
Detto questo – e detto che purtroppo non vorremmo parlare delle assai promettenti sorti della narrativa italiana, che quasi nella sua interezza, per un verso o per un altro, insegue incessantemente le proprie piccole narrazioni –, le grandi narraXXIoni sono anche altro. Anzi, il loro punto nodale è proprio altro, è una spinta a essere realmente contemporanee al proprio mondo e a se stesse, misurandosi con la possibilità di non coincidere con il proprio presente ma piuttosto di passarci attraverso, o di leggerlo “di traverso” appunto, senza mai smettere di abitarlo. Ma cerchiamo di essere meno generici, e facciamolo dire al filosofo.
Recentemente Agamben ha pubblicato un breve scritto dedicato alla contemporaneità, dove si chiede chi e che cosa è davvero contemporaneo al proprio tempo. Si risponde innanzitutto affermando che può dirsi contemporaneo solo colui che non aderisce perfettamente al proprio tempo, ma che vive con esso una sorta di sfasatura, di inattualità; cosa che gli permette di concentrarsi sulle ombre piuttosto che sulle luci della propria epoca: così, è contemporaneo “soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del proprio secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità”; ancora, “è contemporaneo chi riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”; di più, essere contemporanei “significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare”.
Ecco, Bolaño è il primo dei grandi narratori perché ha intuito la sua contemporaneità, ha saputo essere puntuale a un appuntamento che sapeva di poter solamente mancare (non a caso ha passato lunghissimi anni isolato, quasi senza pubblicare). Ma soprattutto ha fissato lo sguardo nell’ombra, nella tenebra più spessa del proprio presente e del proprio presente passato come pochi hanno saputo fare (2666 emana proprio la luce speciale di questa oscurità). Ma di Bolaño, della sua urgenza, del suo amore disamore per la letteratura, riparleremo.
Certo, non solo Bolaño può dirsi contemporaneo. Sono molti gli artisti, poeti, scrittori, musicisti ecc., che in qualche forma sono contemporanei al proprio tempo, e in certa misura autori di grandi narrazioni; ma ancora di più sono gli artisti, di ogni genere e grado, che invece di essere contemporanei sono ultracontemporanei, aderiscono al proprio presente, coincidono con i propri luoghi e luoghi comuni, sincronizzano i loro sensi al senso comune della loro epoca. Inutile dire che questo sia inevitabile e perfino normale, e inutile dire che dagli ultracontemporanei, appunto di ogni grado e genere, non possiamo che aspettarci piccole narrazioni, quando va bene.
Quando invece non va bene, cosa che accade spessissimo soprattutto da quando il sistema delle arti (dall’arte contemporanea delle grandi fiere e biennali, alla grande distribuzione libraria, cinematografica musicale, ecc.) è letteralmente esploso invadendo ogni ambito della nostra vita, non è lecito aspettarsi neppure una piccola narrazione: diciamocelo, tutto il resto è noia, soprattutto in Italia. Per farla breve: se si guarda alla narrativa, non c’è bisogno di spendersi in esempi che chiunque legge conosce; anzi, data la pochezza narcisistica, l’asfissia, se non l’approssimazione letteraria e poetica della maggior parte dei nostri scrittori, giovani e non giovani, si finirebbe per rievocare una inutile litania di tristezze, masochismo intellettuale fin troppo gratuito di questi tempi. Più interessante e sintomatico, da questo punto di vista, è invece il caso dell’arte contemporanea, che pur non essendo una vera e propria industria culturale, ha ricalcato i passi della grande finanza, globalizzandosi, come si dice, insieme a lei (se si pensa che numerosissimi fondi di investimento nascono proprio intorno a opere d’arte contemporanea...).
Anche qui, sinteticamente, se si osserva bene si vedono a occhio nudo due grandi tendenze: la prima, irrefrenabile Leitmotiv dell’arte internazionale, la si può definire come un’invincibile compulsione al mimetismo, dove una generalizzata e spericolata mimesi senza filtro s’identifica spesso con gli strumenti della avanzante civiltà virtuale. Il concetto profondo è questo: dato che la realtà non esiste, o almeno non esiste una realtà, io artista temerario tento di incontrarla fotocopiandola, ricalcandola, rimontandone in studio i pezzetti, rendendola in un certo senso più vera di quello che è (o che non è), in preda a una sorta di ipermimetismo demente (dentro cui sta un certo uso della fotografia, l’idea che sperimentare nuove tecnologie è di per sé arte, il gusto di ripetere o simulare il mondo, regalando qua e là utilissime didascalie della storia): non mi posso scordare, tanto per fare un esempio, l’opera più significativa che ho visto alla scorsa Biennale di Venezia, una scultura concettualmente così notevole che non aveva e non ha davvero bisogno di commenti: proprio in apertura del percorso, all’Arsenale, ci si imbatteva in un plastico dove in continuazione un aereo precipitava meccanicamente su un Ground zero perennemente ferito... (cosa che ci dice fin dove si può spingere il famoso alibi Lyotard...).
Ma la tendenza principale è la solita che si incontra anche nei nostri scrittori, la maggior parte delle opere non superano la soglia dell’autoreferenzialità anche quando vogliono in concreto parlarci del mondo: anche qui mi viene in mente un’opera dell’ultima Biennale, una istallazione composta di bauli pieni di oggetti e vestiti usati in una vita di viaggi, messi lì proprio a significare questi stessi viaggi. Ma coazione alla tautologia e autoreferenzialità nell’arte sono un fenomeno certamente più significativo di quello che accade in altre discipline, come la letteratura o il cinema, che hanno propri media specifici, come il libro o la pellicola, che garantiscono almeno dei confini o dei limiti tecnici. Qui l’irrefrenabile istinto autoreferenziale ci dice qualcosa di più, ci confessa le tendenze profonde che incubano all’interno del sistema di relazioni simboliche della cultura globale, dato che questo istinto segna l’espansione esasperata del dominio dell’artistico, per cui qualsiasi espressione o gesto o oggetto umano è potenzialmente un’opera d’arte (essendosi ormai dissolto ogni compromesso di valore o di giudizio estetico). Si potrebbe anche dire che l’arte è ormai senza confini, non ha più limiti, e se non fosse quasi tragico si potrebbe anche pensare che una delle utopie dell’avanguardia si è realizzata, ma invertendosi: non l’arte alla vita ma la vita all’arte. Altro insomma che piccole narrazioni!
Ora, dato che il principio di economia vale anche in letteratura, almeno nella letteratura che vale la pena, meglio lasciar perdere gli esempi negativi e i tristi figuri che ci assediano quotidianamente da ogni tipo di gazzetta, antica o moderna che sia: quando leggo qualcosa che non mi dice niente, o che mi dice cose che già so, preferisco evitare l’inutile masochismo di parlarci pure sopra. Certo è, però, che per noi oggi non è facile ignorare il superfluo. Un proverbio in spagnolo dice: cuando no hay solomo de todo como (quando non c’è il filetto con tutto fo’ banchetto). Se solo questo abbiamo da mangiare, insomma, c’è ben poco da fare. Se non digiunare o mettersi in ricerca. Ecco allora che rintracciare e riconoscere grandi narraXXIoni significa anche ritrovare il sapore delle cose, cercare di nuovo i confini che si vanno perdendo, ripristinare le porte tra il significativo e l’insignificante, recuperare l’arte alla sua contemporaneità, e magari alla sua possibilità di prefigurare il nostro presente e il nostro presente futuro. Per tutte queste ragioni mi sembra inevitabile e salutare seguire innanzitutto la stella di Bolaño, che non solo brilla sulle nostre teste, ma che qualche testa, piano piano, farà ancora brillare.
Absolute ville 16 settembre 2010
© Gianmaria Nerli
Gianmaria Nerli è nato nel 1972, è toscano ma vive a Roma. Ha insegnato generi e tecniche della narrazione nel Master dell’Università di Siena l'arte di scrivere , scrive saggi di letteratura e di arte, ha curato rassegne e antologie letterarie (dal 2009 collabora alla realizzazione del Festival internazionale di poesia “Absolute Poetry”), e allo stesso tempo mostre d’arte contemporanea in Italia e all’estero. Recentemente ha pubblicato un libro di prose narrative, Voltitravolti, (in collaborazione con l’artista Enrico Pulsoni e con il musicista Bernardo Cinquetti) da cui è nata una performance vocale-visiva e una videoanimazione. Nel 2008 ha fondato e dirige la rivista di arti e linguaggi del presente, «in pensiero», dove si incontrano artisti internazionali di varie discipline e generi.
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