Franco Farinelli
| pag 1 |•| pag 2 |•| pag 3 |•| pag 4 |•| pag 5 |•| pag 6 |•| pag 7 |
- 1 -
Il globo, la mappa, le metafore
Grazie, sarò ardito come dice Vittorio Loda che ringrazio anche questa sera e, poiché faremo un lungo viaggio, dobbiamo cominciare presto per arrivare non troppo stanchi. Questa immagine è nota a tutti, ma nessuno ne conosce il nome preciso, perché non esiste e, come si vedrà alla fine, non è un caso: questo dipinto è noto come L'Atelier, o L'Arte della pittura, o Un artista nel suo studio, o Johannes Vermeer 1666-1667.
Il fatto strano è che nessuno si sia fin qui accorto come si tratti di una puntuale, puntualissima illustrazione del pensiero di Leibniz. C'è un legame tra Vermeer e Leibniz, precisamente l'esecutore testamentario di Vermeer, quel Van Leeuwenhoek, inventore del microscopio, che era molto amico di Leibniz stesso.
Anche Svetlana Alpers, che ha analizzato il dipinto, capisce davvero poco di questa immagine. Sul fondo, come è evidente, giganteggia una rappresentazione cartografica. La Alpers, in un volume molto fortunato, L'arte del descrivere, sui rapporti tra scienza e pittura nell'Olanda del Seicento, afferma che questa immagine rappresenterebbe la possibilità che la pittura per così dire inglobi, ovvero si impadronisca della cartografia. E davanti a questa immagine straordinaria, si chiede se il pittore stia guardando la modella oppure la mappa sul fondo. In realtà, se si osserva bene, nessuno dei due può vedere alcunché, né il pittore né la modella. La modella ha lo sguardo abbassato, le palpebre chiuse, e il pittore ha una sorta di benda nera sugli occhi. La benda non è nient'altro che quella spessa linea nera che si intravede sulla carta appesa al muro, e che separa la parte inferiore, con la legenda, dai segni cartografici superiori.
L'intera immagine rappresenta esattamente la monade di Leibniz. Non vi è una finestra all'interno della rappresentazione, così come la monade non ha finestre e l'illustrazione, termine a termine, esemplifica chiaramente quello che Michel Serres chiamerebbe un "ciclo di ciclo di rappresentazioni". Michel Serres diceva che la filosofia di Leibniz era "un ciclo di ciclo di rappresentazioni", e anche questa tavola lo è. Si parte, nell'angolo in basso a destra, da ciò che Leibniz chiamava il fuscum subnigrum: il colore è quasi nero, non si distingue nulla: è il grado zero della conoscenza. Poi, a misura che si avanza verso la parete, abbiamo la chiarezza. Non è una metafora, è esattamente un'esemplificazione del sistema filosofico leibniziano che procede per gradi. Leibniz distingueva innanzitutto tra una conoscenza oscura oppure chiara. La conoscenza chiara poteva essere a sua volta confusa oppure distinta. Per illustrare che cosa intendesse per 'conoscenza confusa', Leibniz adopera l'immagine del pittore che sta dipingendo, guarda la tela e non riesce a definire che cosa manchi perché quello che sta dipingendo sia esattamente quello che sta guardando. Proprio come accade nel caso del nostro pittore, chiunque esso sia, se riuscissimo a scorgere ciò che sta disegnando. Pare che stia disegnando le foglie di lauro che incoronano la figura femminile, Clio. Che figura femminile sia Clio è una delle pochissime cose certe di questa immagine: nel 1644 in Olanda viene pubblicato l'Iconologia del Ripa e la figura corrisponde esattamente a questa iconologia; si è incerti, invece, sul libro, se sia Tucidide oppure Erodoto, ma la tromba in mano, l'alloro e il libro ne fanno chiaramente Clio, la musa della poesia, dell'epos e dunque, per estensione, dell'oralità della storia, del logos.
Come in molti quadri di Vermeer, la signora presenta una stana inclinazione, esattamente la stessa che noterà Cezanne nei ritratti femminili oggi al Metropolitan Museum. Quella linea nera che, ripeto, sulla carta distingue la legenda dai segni cartografici e benda, acceca gli occhi del pittore, trancia il collo alla signora, a Clio, alla musa, all'epos, alla storia. Questo è il significato dell'immagine, almeno secondo me, perché proprio questo arriva a sostenere Leibniz (Cassirer ci fa la sua tesi di laurea e, sia detto per inciso, a leggere Cassirer, vien voglia di chiudere il testo e di dire che non è più possibile nessuna espressione letteraria, che non può più darsi nessuno spazio letterario).
Dunque, quella che viene rappresentata sulla tavolozza del pittore è esattamente la conoscenza chiara ma confusa, non distinta, dove manca quel certo non so che per far sì che la foglia di alloro sia esattamente quella che viene riprodotta sulla tela. Per Leibniz, infatti, si ha 'conoscenza distinta' solo quando è possibile scomporre le parti di cui la cosa si compone ed assegnare a ciascuna una definizione nominale, cioè un nome. Dunque una conoscenza è chiara è distinta se vi sono nomi propri e se è possibile scomporre, dis-articolare la cosa in un insieme di note per ciascuna delle quali è possibile trovare una definizione nominale. Questo accade, dice ad esempio Leibniz, con l'oro: l'oro è scomponibile chimicamente, ed è possibile assegnare un peso, un nome, a ciascuno dei suoi elementi. La conoscenza chimica dell'oro per Leibniz corrisponde alla conoscenza chiara, distinta e adeguata.
C'è l'ultimo livello. Per Leibniz la conoscenza chiara, distinta ed adeguata si suddivide ancora in simbolica e intuitiva. È simbolica quando non riusciamo a cogliere la totalità, perciò si rende necessaria la scomposizione ma riusciamo ad assegnare un nome ad ogni nota. Questo avviene evidentemente sulla carta geografica che, proprio al contrario di quanto la Alpers sostiene, non è l'esempio di ciò che la pittura riesce a catturare, ma, al contrario, sta lì a significare la cattura, da parte del sistema cartografico, di tutto il procedimento conoscitivo: per Leibniz, la carta è il punto di arrivo della conoscenza dato agli uomini. Conoscenza chiara, distinta, adeguata, simbolica; se non fosse simbolica ma intuitiva, sarebbe conoscenza divina.
E, diciamolo subito, se fosse intuitiva, ci troveremmo di fronte non ad una mappa ma ad un globo.
© Franco Farinelli
Nessun commento:
Posta un commento