venerdì 24 settembre 2010

Un autore a molte dimensioni

  Nicola Lagioia  

Un autore a molte dimensioni
Come tracciare una mappa che dia almeno l’illusione di poter padroneggiare l’universo a molte dimensioni di uno come Roberto Bolaño, il quale, proprio sullo sconfinamento e sui salti spaziotemporali, ha innalzato buona parte della propria poetica? uno scrittore che, tra i tanti luoghi sparsi per il mondo in cui volta per volta scaraventa i propri personaggi, ha eletto a epicentro emotivo e spirituale delle sue peregrinazioni una distesa di sabbia e ossa (anche umane) senza strade né segnaletica né giurisdizione come il terribile deserto di Sonora collocato nella parte nord-occidentale del Messico? Dal momento che in questi casi la strategia migliore per toccare il lato più profondo di un grande autore è proprio l’educazione allo smarrimento, cominciamola così:

Auxilio Lacouture, protagonista di Amuleto (1999), colei che si autodefinisce “la madre della poesia messicana” e che rimane chiusa per quindici giorni nei bagni dell’università di Città del Messico durante l’irruzione dei militari nel settembre del 1968, nasce in realtà in un altro libro di Bolaño, uno dei suoi due romanzi-mondo, vale a dire I detective selvaggi (1998); un’opera, quest’ultima, in cui due giovani bohémien in fuga per almeno tre continenti ricordano vagamente Sal Paradise e Dean Moriarty di On the Road (con la fondamentale differenza che mentre i compagni di strada di Kerouac erano outsider che cercavano di sopravvivere alla società dei consumi, la generazione di Bolaño ha amato disperatamente un’America Latina costretta a sostenere lo sguardo mortifero di Pinochet, il sangue di piazza delle Tre Culture, la vaporizzazione di migliaia di desaparecidos), e sono uno (il cileno Alberto Belano) l’alter ego di Bolaño, mentre l’altro (il messicano Ulises Lima) il probabile padre del baby-poliziotto Lalo Cura; il quale Lalo Cura, però, non è a sua volta un personaggio di I detective selvaggi bensì uno dei numerosissimi tasselli dell’altra grande impresa di Bolaño, vale a dire quel 2666 in cui ad esempio lo scrittore francese Arcimboldi presente in I detective selvaggi si trasforma nel tedesco Benno von Arcimboldi, uno scrittore fantasma – più alla Salinger che alla Pynchon, la cui sparizione è solo la miccia capace di accendere un romanzo che se ne va (si smarrisce, appunto) verso tutte altre piste per tornare però verso la fine dallo stesso Arcimboldi, tradotto in italiano dal personaggio di fantasia Piero Morini, il quale però (ancora...) somiglia maledettamente ad Angelo Morino, il traduttore e docente universitario piemontese scomparso nel 2007 che davvero curò per il nostro paese proprio le prime opere di Bolaño... Bene, ci siamo già persi.

Niente paura, però. Lo smarrimento che si prova inseguendo Bolaño attraverso le gemmazioni che esplodono continuamente nei suoi libri in maniera simile a ciò che accade per i frattali o per le ancora poco sondate corrispondenze (anzi, a pensarci meglio: correspondances, alla Baudelaire) della fisica subatomica è pari solo al piacere e al sentimento di empatia che si prova leggendolo – e, per ciò che qui ci interessa, è importante per definire almeno una delle sue ascendenze: e cioè Julio Cortázar e il suo romanzo ipertestuale. È lui, l’autore di Rayuela (in italiano Il gioco del mondo), il vero fratello maggiore di questo cileno scomparso prematuramente nel 2003 all’età di cinquant’anni dopo aver fatto mille mestieri, aver scritto in poco più di un decennio uno stupefacente numero di libri (La letteratura nazista in America è del 1996 mentre 2666, che è già postumo, esce per la prima volta nel 2004; nel mezzo, tanti altri romanzi e raccolte di racconti, da Amuleto a Puttane assassine a Notturno cileno...), molti di buona qualità e almeno due già consegnati alla storia della letteratura (I detective selvaggi e appunto 2666), dopo essersene andato in giro per il mondo e aver trovato una patria adottiva in Spagna e aver atteso invano un trapianto di fegato proprio mentre il mondo iniziava ad accorgersi di lui – i lettori anche prima e più dei critici, e non parlo dei lettori professionisti ma dei lettori che altrimenti non leggerebbero libri, tanto che Bolaño ha l’onore, insieme a personaggi come Bukowski o Edward Bunker, di essere tra gli scrittori più letti nelle carceri. Con la differenza – tornando ai rapporti tra Cortázar e Bolaño – che mentre ai tempi di Il gioco del mondo vivevamo su un pianeta non ancora totalmente interconnesso, oggi l’ipertestualità è la piattaforma senza peso su cui tutti poggiamo, e se dunque i romanzi di Cortázar (al pari delle cyber-reti telematiche ante litteram che dominano gli abissi di vere profezie in sedicesimi come Le tre stimmate di Palmer Eldritch di Philip Dick) erano appunto prototipi in anticipo sui tempi di oltre tre decenni, Bolaño ha il merito di convertire la fredda e ubiqua immaterialità del mondo globalizzato in una calda vicenda di uomini e donne, ragazze e ragazzi le cui sconfitte, i cui deragliamenti, la cui dispersione e sparizione sotto il rullo compressore della Storia non impedisce loro di perdere la dignità, non gli impedisce di intraprendere e anzi di credere in un autentico – autentico perché finalmente, pur nell’era del fake che gioca continuamente alle tre carte col suo opposto, non ha più nulla di apocrifo – viaggio esistenziale e addirittura spirituale (ci possono credere perché esso, nelle pagine di Bolaño, è assolutamente credibile).
Si potrebbero tracciare altri legami – e da qui marcare analogie e differenze – tra Bolaño e altri grandi scrittori massimalisti dell’ultimo secolo. Si potrebbe per esempio dire che i tantissimi personaggi che popolano romanzi come 2666 o I detective selvaggi non sono più legati tra di loro da rapporti familiari o genealogici (come avveniva nei romanzi di Faulkner o di Garcìa Màrquez) né da oggetti materiali (la pallina da baseball di Underworld) o di consumo (il film di James Incandenza in Infinite Jest) ma sembrano essi stessi dei cervelli misteriosamente interconnessi tra di loro, un’intelligenza collettiva che però volta per volta sa parlare con voci più che individuali. A questo si può aggiungere la vocazione cosmopolita, globale, delle storie di Bolaño (sono globali senza perdere la loro profonda identità latino-americana), che rompendo gli steccati autarchici a stelle e strisce e contemporaneamente infischiandosene degli ultimi scampoli di arroganza eurocentrica o di folklore latinoamericano, si svolgono (o meglio, si scatenano) da un continente all’altro – da Città del Messico, a Milano, a Parigi, a Londra, alle spiagge californiane, a Tijuana – in assoluta naturalezza, giocando in modo veramente virtuoso ed eclettico e ricco con gli elementi del mondo globalizzato (una Coca-cola bevuta a Milano ha, nei romanzi di Bolaño, un sapore completamente diverso da una Coca-cola bevuta nel deserto di Sonora, eppure l’identità di marchio crea un impalpabile, oscuro, inquietante, affascinante legame tra i due contesti). Ma il punto centrale, forse, non è questo.
Roberto Bolaño è morto a Barcellona all’età di cinquant’anni, nel 2003, come si diceva per un male al fegato e per un trapianto che è tardato ad arrivare. David Foster Wallace si è suicidato a Claremont all’età di quarantasei anni, nel 2008. Due morti premature. Eppure una (quella dell’autore di Infinite Jest) sembra chiudere un ciclo, mentre l’altra sembra al contrario aprirlo.
Non è più solo una sensazione che la letteratura più robusta e più affidabile degli ultimi trent’anni – e cioè quella statunitense – abbia subìto dopo l’inizio del XXI secolo una battuta d’arresto. Se fino agli anni novanta gli eredi di Saul Bellow (Philip Roth in testa), gli allievi di Chandler e di Hammett (un nome su tutti: James Ellroy) e i nuovi soprendenti fuoriprogramma sui temi che furono di Thomas Pynchon e di John Barth (il loro coetaneo Don DeLillo, e il più geniale discepolo di questi ultimi: David Foster Wallace) hanno reso la letteratura statunitense un magnifico treno sparato verso la fine del Novecento, è come se, da un certo punto in poi – a voler prendere una data simbolica non si può non pensare all’11 settembre del 2001, col paradosso che i grandi romanzi sulla paranoia globale come Underworld sono stati scritti prima dell’11/9 –, questa abbia dovuto fare i conti con un imprevisto quanto traumatico deficit immaginativo. Una delle conseguenze per molti lettori è stata che, all’improvviso, chi si appassionava con le storie dello svedese (Pastorale americana) o con l’epopea di Hal Incandenza (Infinite Jest) si è trovato a sentirsi più vicino ai naufraghi di Roberto Bolaño. Per quale motivo?
Mi vengono in mente almeno due spiegazioni. Da una parte la crisi (non solo economica) che sta scuotendo l’occidente, più che con solidi per quanto calunniati professori universitari come Silk Coleman (protagonista del bellissimo La macchia umana), più che con geniali per quanto problematici studenti del college incastonati nel futuro prossimo del neo-neo liberismo (Hal Incandenza) ci porta a empatizzare con dei veri outsider, dei perdenti fatti e finiti come sono molti personaggi di Bolaño. Abbiamo l’impressione, cioè, che questi ultimi riescano a capirci meglio di quanto possa fare uno svedese uscito da Pastorale americana, il quale, per quanto si trovi ad avere la vita distrutta, è comunque un integrato quale noi rischiamo di non essere più.
La definizione più bella e appassionata della poetica che sto cercando di mettere a fuoco l’ha data lo stesso Bolaño quando ha detto: “In qualche misura tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano e quel molto che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo. L’intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati”.
Sono, per intenderci, questi giovani dimenticati, i fratelli minori di gente come Héctor Oesterheld, il geniale disegnatore argentino inventore di L’eternauta che nel 1977 andò a ingrossare le file dei desaparecidos – e dal momento che noi, fratelli minori di Bolaño, sentiamo il rischio di un altro tipo di scomparsa (il timore di essere cresciuti in un totale vuoto esistenziale ideologico estetico civico spirituale, e di poter essere riconsegnati da un momento all’altro a questo vuoto per sempre, di non essere cioè abbastanza in gamba o fortunati da evitarlo) ecco che Roberto Bolaño all’improvviso diventa un confidente più attendibile di tanti grandi scrittori della contemporaneità con cui ci siamo accompagnati negli ultimi anni.
La seconda spiegazione ha a che fare con la circostanza che romanzi non tradizionalmente realistici come 2666 o I detective selvaggi segnano contemporaneamente la fine del postmoderno, o perlomeno di quel postmoderno convinto che il mondo in cui viviamo – per quanto oggetto di analisi e di critiche nonché fonte di infelicità e isteria per chi lo popola, cioè tutti – sia appunto l’unico possibile, o meglio non nasconda nulla sotto o sopra di sé per il solo fatto di essere l’unico visibile. Insomma... il vero limite che rischiano di mostrare i pur robustissimi romanzi realisti come quelli di Philip Roth, la vera dannazione di scrittori iperconsapevoli come David Foster Wallace (e, nello stesso tempo, il motivo per cui tra gli statunitensi reggono ancora molto bene i figli dei narratori biblici come Joyce Carol Oates e Cormac McCarthy) consiste nell’incapacità direi anche programmatica (nel caso di Roth, orgogliosamente programmatica) di vedere, sotto la superficie del mondo su cui scivoliamo sempre più velocemente, un mondo infero in cui avventurarsi per ritrovarsi finalmente faccia a faccia col Minotauro di questi anni. Un’incapacità che non aveva Conrad quando metteva Marlowe faccia a faccia con Kurtz; e non aveva Melville, quando faceva la stessa cosa con Achab e Moby Dick; e non aveva Faulkner, quando in L’urlo e il furore ci accompagna per esempio tra gli abissi della mente di Quentin, il quale, prima di suicidarsi, desidera di bruciare nel punto più basso dell’Inferno insieme a sua sorella Caddy; e non aveva Philip Dick e non ha (per arrivare all’oggi) un regista come David Lynch, in grado di accompagnarci (il mondo infero che da sempre regge il Sunset Boulevard) tra i demoni del Club Silencio.
Una simile capacità di inabissamento ce l’ha anche Roberto Bolaño. Se i suoi romanzi si perdono tra mille rivoli, tutte le strade portano in realtà (effettivamente o solo idealmente a seconda dei libri presi in esame) verso un unico grande punto – un luogo infero, oscuro e tuttavia accecante – e cioè come si diceva il deserto di Sonora e il confinante agglomerato urbano di Santa Teresa, versione letteraria di Ciudad Juárez, probabilmente oggi la città più violenta e pericolosa del pianeta (nel solo 2009, circa 2500 omicidi), scelta da Bolaño insieme al deserto come abisso di perdizione e insieme oasi iniziatica: è qui che i suoi personaggi si imbattono nel proprio personale Minotauro, e ne vengono salvati e divorati insieme; un luogo parallelo, Santa Teresa, alla citta azteca di Quauhnahuac, che (se Cortázar da una parte è il suo scrittore-fratello maggiore) ospita la perdizione-redenzione del personaggio letterario a Bolaño probabilmente più caro: il console Firmin, protagonista di Sotto il vulcano e alter-ego del naufrago e santo bevitore Malcolm Lowry.

Non è un caso che I detective selvaggi si apra con una stupefacente e terribile citazione presa proprio da Sotto il vulcano (“Lei vuole la salvezza del Messico? Vuole che Cristo sia il nostro re?” “No”). E non è ozioso, per cercare di rendere meglio l’idea, ricordare ciò che vedremmo oggi se solo ci appostassimo un intero week end sul confine nord-occidentale tra Stati Uniti e Messico. Il venerdì mattina osserveremmo enormi lunghissime carovane di automobili e pick up scassati provenienti da Dávila, da Villegas, da San Luis, che cigolano lentissimamente a pochi centrimentri gli uni dagli altri, si fermano ai complicati controlli doganali, e poi muovono in direzione San Diego: sono i messicani, e vanno verso il lavoro. Ma a partire da venerdì pomeriggio, e per tutto il sabato, delle eleganti pulitissime automobili con cambio automatico iniziano a sfrecciare in direzione opposta senza nessuno che le fermi: sono i giovani statunitensi, ragazzi e ragazze di diciotto, venti, venticinque anni che fuggono dai loro incubi ad aria condizionata, dal benessere, dagli psicofarmaci, dalla competizione sfrenata e dal terrore di fallire, diretti verso gli scheletri danzanti di Tijuana, verso un luogo dove finalmente avranno (se solo lo vorranno) la libertà di perdersi, di inabissarsi, di scomparire – nella segreta speranza di non tornare più; o di riemergere in un luogo che non sia il funzionale ufficio della multinazionale dove il loro futuro è tumulato da prima ancora che finiscano il college. Ovvio che Ulises Lima, Arturo Belano o Benno von Arcimboldi diventino, in un contesto del genere, il Virgilio da cui vorremmo essere accompagnati per il nostro viaggio al centro della Terra.



Lo straniero   ottobre 2010
© Nicola Lagioia

 

 

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