MARIO BAUDINO - 16 maggio 2013
Bolañomania, così un anarchico diventa un mito pop
Roberto Bolaño era caustico e irriverente; disse in una intervista:
«Se mi fossi formato con i gusti di mia madre - disse in un’intervista - adesso sarei una specie di Marcelo Serrano o Isabelo Allende, cosa che del resto non sarebbe male perché non avrei conosciuto i tormenti dello scrittore e invece avrei conosciuto il miele dei milioni, il che visto con il senno di poi non sarebbe stata una brutta fine».
Ancora sconosciuto, era temutissimo alle manifestazioni letterarie per i suoi interventi imprevedibili. E quando cominciò a conquistare una certa fama, non diventò più diplomatico. Il suo giudizio sugli scrittori latino americani, a parte gli amatissimi Borges e Cortazar, era spesso impietoso; come quando parlava degli autori «di sinistra», considerandoli una delle grandi disgrazie del continente, anzi un vivaio di disgrazie.
Si dichiarava trotkista. Raccontò di essere tornato in Cile, dal Messico dove era cresciuto, per sostenere il presidente Allende, e nella sua biografia «ufficiale» ci sarebbe anche un arresto da parte dei golpisti. Ma è una testimonianza molto dubbia, a cui pochi credono. Bolaño è stato un irridente e serissimo eroe dell’autofiction quando ancora non era di moda, e uno scrittore gigantesco che a partire da I detective selvaggi ha imposto una narrativa diversa e inaudita. A dieci anni dalla precoce morte è un’icona che ingloba innumerevoli racconti mitologici, un eroe letterario e persino politico. «Quasi un mito pop» dice l’ispanista Vittoria Martinetto, che condurrà un incontro a lui dedicati.
È uno scrittore coltissimo, molto «borgesiano»: ha un successo planetario, che non si traduce in numeri da best seller ma in un entusiasmo dilagante fra rete, cinema, fumetti, per non parlare dell’ammirazione che viene da scrittori diversissimi tra loro come Sandro Baricco, Javier Cercas, Jonathan Lethem. E naturalmente Enrique Vila-Matas, che lo conobbe quando si trasferì in Spagna e lo sostenne senza riserve. Nel Salone che ha per ospite il Cile, sarà una star e una presenza ineludibile. Nel 2008, quando uscì postumo in America il romanzo 2666, e già I detective selvaggi avevano suscitato convergenti entusiasmi nel New York Times e in Playboy, l’Economist coniò il termine di Bolano-mania osservando piccole folle nei bar alla moda dell’East Village che si passavano il libro. Quest’anno, oltre agli incontri del Lingotto sabato e domenica (una serata di letture e un dibattito «Scrivere dopo Bolaño») il Salone off gli dedica un’intera notte tra domani e sabato dove si parlerà addirittura di Inti Illimani. Bolaño-mania vuol dire anche agiografia. Non si rischia di perdere lo scrittore?
«L’agiografia c’è, ma in fondo non mi dà fastidio» dice uno dei nostri autori che più lo hanno studiato e amato, come Nicola Lagioia. Non si rischia la caricatura? «Bolaño era un anarchico. Si dichiarava trotkista. E i suoi gusti letterari sono sempre ambigui, quindi ottimi. Ci ricorda che il Sud America non è realismo magico, ma desaparecidos, che è il luogo dove si instaurano dei carnevali macabri. Però ingabbiarlo politicamente temo sia una sciocchezza, soprattutto in Italia. Negli Anni 90 leggevo Philiph Roth. Nel decennio successivo, Bolaño. I suoi personaggi emarginati, beffardi e disgraziati, hanno fatto presa su una nuova generazione di lettori». Cominciò a pubblicarlo Sellerio, tradotto da Angelo Morino che lo aveva scoperto. Con I detective selvaggi venne al Lingotto, spettinato e allampanato. Era il 2003, gli restavano pochi mesi di vita. Il successo, la Bolano-mania, fu un dono postumo, quando il celebre agente letterario Andrew Wiley lo impose in America. Da noi, i diritti passarono all’Adelphi, che continua a pubblicare inediti (è appena uscito Un romanzetto pulp). Ha scritto senza sosta, come un monaco. Ma amava tutte le contraddizioni. Una volta disse che se gli fosse capitato di vincere alla lotteria - come ci ricorda Vittoria Martinetto - si sarebbe dedicato a quattro poesie e basta. Perché, aggiungeva, «scrivere è noiosissimo».
La Stampa 16 maggio 2013
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