Alessandro Baricco -
UNA CERTA IDEA DI MONDO
Repubblica 30 settembre 2012 -Quel che ricordo bene è l' sms che un mio amico scrittore (Dario Voltolini, uno che tra l' altro scrive da dio) mi mandò qualche settimana dopo che gli avevo ingiunto di leggere 2666. Ecco il testo:
" Letto Bolaño. Cambiato mestiere."
Difficile essere più esatti e concisi. In genere, se scrivi libri, leggere i libri dei contemporanei ti procura una certa autostima, talvolta ti stimola alla sfida, ogni tanto ti fa percepire amaramente i tuoi limiti: molto di rado ti schianta. Io, se si parla di scrittori viventi, questa brutta esperienza l' ho fatta solo due volte: con Foster Wallace e con Bolaño. Adesso voi direte che quei due sono morti, e se ci atteniamo alla realtà avete ragione, ma mi permetto di catalogarli tra i viventi perché chi muore a libri ancora caldi non è morto davvero, o almeno così la penso io. Quindi, loro due. Che per molti versi mi viene sempre più da tenere vicini nella memoria, ma solo in parte per il loro destino mozzato, e piuttosto per un' altra caratteristica che li accomuna e li strappa fuori dal gruppo: la strafottenza. La dismisura. Lo sfoggio impudente di bravura. Nei loro libri migliori c' è molto di più di quello che sarebbe bastato a sancire la semplice verità che a loro, quel gesto, riusciva molto meglio che agli altri. Evidentemente non scrivevano per scalare classifiche, ma per scalare il proprio talento, che poi sarebbe l' unico modo giusto di fare la cose.Adesso dovrei forse spiegare in cosa consista la magnificenza di 2666 ma volentieri rimando la cosa per annotare quel che è utile sapere della sua genesi. Intanto, non chiedetemi perché si intitola così, nessuno lo sa. Lui lo sapeva, pare, ma neanche quello è sicuro.
Seconda cosa, 2666 non è un libro, ma cinque libri. E' una vicenda curiosa, uno di quei casi in cui lo scrittore si comporta come uno dei suoi personaggi (circostanza che fa molto godere i lettori e molto irritare gli scrittori). Agli inizi degli anni ' 90, quando era più o meno quarantenne, Bolaño seppe che probabilmente non gli rimaneva molto da vivere (glielo dissero dei medici, non una chiromante in Piazza Navona). Aveva una compagna e due figli. Così pensò bene di scrivere un po' di libri e di tenerli lì, da parte, perché uscissero uno per uno dopo la sua morte, così da mantenere la famiglia, nel tempo (un personaggio da romanzo di Bolaño, l' ho detto). Poi, in effetti morì, a cinquant' anni, nel 2003, e quel che successe è che i suoi eredi, letti i cinque libri, pensarono che erano un gesto solo, e decisero di pubblicarli tutti insieme, sotto un solo titolo, assumendosi una responsabilità non da poco. Il risultato è un unico romanzo che ne contiene cinque: il rapporto tra loro è evanescente, a volte chiarissimo, spesso inesistente. Una prossimità distante. Io, dico la verità, ne ho letti quattro su cinque. L' ultimo me lo sono tenuto da parte, un po' perché ero schiantato, come ho avuto modo di dire, e un po' perché tenerne uno per il futuro mi è parso un omaggio tardivo, ma sincero, alle intenzioni di Bolaño. Mentre leggevo il primo, rapito, mi accadde che qualcuno mi chiedesse: di cosa racconta? Ricordo bene la mia risposta: non lo so, non è importante. Adesso ritorno a quella risposta e mi piacerebbe ricostruire il lungo percorso mentale che finii per raccogliere in sei parole, perché se ne fossi capace allora potrei dire di avervi spiegato in cosa consiste la bellezza di questo libro. Ma non è facile.
Ricordo che il punto da cui partiva tutto era la prosa di Bolaño, divinamente fluida, eppure esatta oltre ogni dire: come se le cose, naturalmente, fossero destinate da sempre a diventare frasi. Nessuno sforzo apparente, nessuna frizione. Chiare, fresche, dolci acque: per pagine e pagine, collezionando grandi storie e minimi dettagli senza increspare praticamente mai il pelo dell' acqua. A quei livelli di limpidezza, il vero spettacolo diventa il disporsi delle storie una accanto all' altra, o dentro l' altra, con una mitezza che nella vita non risulta, e nei libri è sempre il risultato di un processo: lì invece era qualcosa che si sostituiva a qualsiasi processo: era un delizioso dato di fatto.
Così, pur registrando che il libro era pieno di storie (rigurgitava, in modo strafottente, di storie, per dirla tutta) quando mi chiesero cosa raccontava risposi come potrebbe rispondere uno chino su un puzzle da duemila pezzi alla domanda: cos' è?, montagne svizzere o un Rembrandt? Non lo so più, non è importante. E' il mite, morbido incastrarsi dei pezzi che è importante: è l' irragionevole promessa, mantenuta, che per ogni pezzo dell' esistente ce ne sono altri nati per stare accanto a lui, e per farlo con una morbidezza direttamente proporzionale alla fatica di trovarli nel gran mucchio del tutto.
Comunque, nel caso di 2666, non si tratta né di montagne svizzere né di un Rembrandt. Credo che sia una cosa tipo Il male. Ma non ci giurerei. Il male e la delizia dei viventi, forse. O Il male e il mistero dei viventi. Insomma, non lo so, di preciso. Magari, il giorno che finirò il puzzle lo saprò. Nel caso, mi faccio vivo
Repubblica 30 settembre 2012 -
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