Eraldo Affinati - 26 novembre 2009
i percorsi di Griselda - - - -su Massimo Rizzante, non siamo gli ultimi
Da dove viene Massimo Rizzante? In quale modo dobbiamo interpretare la sua vitale insofferenza nei confronti del narcisismo estetico e intellettuale dominante?
Difficile dirlo, se non rimescolando le carte di cui dispone, due raccolte di poesia tra le più eccentriche dei nostri tempi (Lettere d'amore e altre rovine e Nessuno), un paio di volumi saggistici molto intensi (L'albero e Non siamo gli ultimi, appena uscito), e alcune traduzioni (tra cui i versi di Sinfonia di novembre e altre poesie, folgoranti, di O. V. de L. Milosz), come se fossero quelle dei tarocchi.
Dopo averle gettate tutte a monte, nello scenario fantastico che lo scrittore ci lascia scoprire, potremo scorgere il cuore tragico e scanzonato dell'Europa centrale, là dove il carattere dell'"Homo poeticus" è stato messo a dura prova dalla furia delirante novecentesca; l'allegria malinconica iberica, scrutinata nella sua metamorfosi latino-americana; certe nordiche vie di fuga e perfino la punta araldica della desolazione modernista che si fa evidente nella periferia statunitense.
Si percepisce in lui, nato a Venezia nel 1963, insegnante all'Università di Trento, ma quasi sempre in giro per il mondo (decisivo, nella sua formazione, l'incontro a Parigi con Milan Kundera), il sentimento tipico dell'orfano spirituale: un misto di mortificazione e volontà di riscatto. Stiamo parlando di una condizione nella quale molti letterati oggi si riconoscono, privati come sono di palestre dialettiche degne di questo nome: ma finora pochi erano riusciti a farcela sentire in modo così lancinante.
Non siamo gli ultimi (che era anche il titolo di una sezione lirica presente in Nessuno) è un libro diviso in tre parti: nella prima l'autore firma una radiografia impietosa della nostra epoca, in cui lo spirito enciclopedico, che la nuova frontiera informatica ha fatto suo, sembra aver avuto la meglio su quello conoscitivo; nella seconda, caratterizzata da alcune letture esemplari di opere classiche e contemporanee, fra le quali spicca la verticale su Chadzi-Murat, il grande racconto tolstojano, compare una notevole intuizione sulla rimozione della morte nella civiltà attuale; nella terza viene celebrato l'elogio dell'esilio non come occultamento delle radici, bensì quale ritrovamento di se stessi nel rapporto con gli altri, ad esempio attraverso lo studio di una lingua straniera. Se la patria può stare, come deve essere chiaro, non soltanto alle nostre spalle, simile a un relitto da recuperare, ma anche davanti a noi, alla maniera del sogno in cui credere.
Tanti sono gli spunti presenti in questa riflessione a tutto campo: pensiamo al mito dell'eterna giovinezza che spinge molti anziani a riunirsi in appositi ostelli per "infantosauri"; oppure alla produzione seriale del cosiddetto "best-seller" editoriale; o ancora, la più che sospetta liquidazione teorica del romanzo in quanto genere letterario, come se il risultato di un'opera non fosse sempre e soltanto una questione di stile.
Ma ciò che davvero conta nel procedere fra narrativo e aforismatico, speculativo e lirico di Massimo Rizzante sono altre due caratteristiche: il repertorio degli autori di riferimento e il tono diaristico. Per quanto riguarda il primo aspetto, come non restare colpiti dalla potenza comparativa delle citazioni che possono far stare insieme Franz Kafka e Saul Bellow, Witold Gombrowicz e José Ortega y Gasset, Fernando Pessoa e Italo Svevo, Robert Musil e Kenzburo Oe, Roberto Bazlen e Ernesto Sabato, Primo Levi e J. M. Coetzee, Hermann Broch e Alfonso Reyes, fino a scrittori assai più vicini a noi come Fernando Arrabal, Juan Goytisolo, Sergio Pitol, Cees Nootebom, Patrick Chamoiseau e Roberto Bolaño?
Finalmente, verrebbe da dire, una nuova famiglia estetica, non edulcorata dalle percezioni comuni! Il che significa: uno sguardo idiosincratico sulla realtà, che mostra il frutto di un lavoro concreto di verifica personale, non ipotetico. Ma dove collocare oggi questa lente visiva? In quale spazio operativo? La sensazione che ho avuto io, dopo aver letto il testo, è stata simile a quella provata da Danilo Kis (un altro nome essenziale di questa poetica), nei suoi ultimi anni parigini, quando, dalla finestra dell'appartamento in cui abitava, nel decimo arrondissement, sentiva le fisarmoniche dei suoi compatrioti slavi, quasi fossero musiche provenienti dall'oltretomba.
Ecco il punto essenziale. La qualità della voce che Massimo Rizzante mette in scena risulta vincolata alla distanza da cui scrive: fra un cartone e l'altro di Non siamo gli ultimi (citazione da Zoran Music, il grande pittore dei cavallini deportato a Dachau nel 1944), emergono degli spaccati autobiografici così significativi da legittimare tutto il libro: come quello dell'autore tredicenne, sotto il Prater di Vienna, in compagnia del padre, insegnante di filosofia, che gli parlava senza curarsi di farsi capire: "È per l'avvenire" spiegava.
© Eraldo Affinati
Eraldo Affinati è nato a Roma nel 1956 dove vive e lavora. Insegna italiano ai minorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi. Collabora al “Corriere della Sera” e a "Famiglia Cristiana". La sua scrittura nasce spesso da un viaggio.
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