domenica 1 agosto 2010

Intelletuali: tra critica e carisma

  Daniele Giglioli -

28 luglio 2010

Intelletuali: tra critica e carisma

Il dibattito sugli intellettuali e la loro fine è come una febbre che si riaccende periodicamente. Se ne guarisce ma lascia sfiniti, e si ha la certezza che ritornerà. Formuliamo allora qualche auspicio per fare, come diceva Pascal, buon uso della malattia.

Ce ne dà occasione la prima uscita della nuova serie di “Alfabeta  . Ne discutono Umberto Eco, Andrea Cortellessa, Andrea Inglese, Augusto Illuminati. Il tema viene ripreso da Eugenio Scalfari sull’”Espresso”,  mentre altri gli dedicano cenni di una sufficienza preventiva che sarebbe anche questa tutta da interpretare (roba da vecchi bacucchi, hanno scritto non so più se Sergio Luzzatto sul “Sole 24 ore” o Mariarosa Mancuso sul “Foglio”). Fatte le differenze, nessuno ostenta ottimismo, così come malinconici erano fin dal titolo un volume di Alberto Asor Rosa uscito non molto tempo fa (Intellettuali, il grande silenzio), o un articolo di Romano Luperini comparso sull’Unità nel 2004 (Intellettuali, non una voce). L’intellettuale, un certo tipo di intellettuale, è senz’altro scomparso: non ha più pubblico, non ha più influenza, non ha più mandato sociale, parla solo ai suoi simili, che spesso, come nota giustamente Scalfari, non lo ascoltano nemmeno loro. L’alternativa è elaborare il lutto o continuare a mantenere in vita un cadavere. Ma è proprio così? O la crisi contiene un germe di opportunità?

Ora, è vero che vedere opportunità nella crisi era la specialità del defunto intellettuale: dove maggiore è il pericolo cresce anche ciò che salva, è il motto a cui si ricorre quando non si sa più a che santo votarsi. Proviamo a dargli una declinazione più materialistica. Un ciclo si è concluso. L’intellettuale per come lo abbiamo conosciuto (da Voltaire a Sartre; lo Zola dell’affare Dreyfus, spesso citato nel dibattito, era solo una tappa intermedia), non ha più ragion d’essere. Per esistere aveva bisogno di una società più o meno cosiffatta: da una parte una gran massa di popolazione analfabeta o quasi, e il potere e il sapere requisiti nel gabinetto del sovrano o nel chiostro dell’accademia; dall’altra l’esigenza, avvertita in strati sempre più ampi di cittadinanza, di veder restituiti al comune, all’uso pubblico della ragione, quegli strumenti di governo degli uomini e della natura che sono impliciti nel motto kantiano in cui si riassume tutta l’impresa dell’Illuminismo: camminare eretti, pensare con la propria testa, uscire dallo stato di minorità.

Era in questo senso che l’intellettuale poteva esercitare il suo prezioso e contraddittorio ruolo di mediazione. Prezioso: perché prima di Voltaire e soci nessuno aveva pensato di sottoporre al vaglio di uno stesso pubblico la fisica di Newton, la filosofia politica di Locke, le teorie economiche dei fisiocratici e poi la storia, la morale, l’estetica, la religione. Contraddittorio: perché l’elemento critico si sposava necessariamente all’instaurazione di una figura carismatica, autorevole non solo per la qualità della sua prestazione ma per il prestigio intrinseco che la figura del “grande” intellettuale portava con sé (c’è il Viet-Nam? Chiediamo a Moravia; c’è l’aborto? Chiediamo a Pasolini), il che contraddice frontalmente l’imperativo a pensare da sé da cui l’intellettuale ha tratto la sua legittimità. Vero e in fondo impossibile espletamento di quel compito sarebbe stato dire: fai come me, pensa da solo (cioè non come me, non sulla base di quello che ti ho detto io).

Se questo è vero, non si potrà mai essere abbastanza grati alle trasformazioni sociali (alfabetizzazione di massa, centralità sempre maggiore del sapere e della conoscenza nella produzione sociale, lavoro cognitivo, comunicazione diffusa, insomma il postmoderno) per aver sciolto questo nodo: per aver cioè finalmente distinto tra critica e carisma. Non che il carisma sia scomparso (ne abbiamo tristi riprove ogni giorno); ma che lo esercitassero gli intellettuali non era una buona cosa. Carisma è separatezza, è requisizione del comune. Più che alla stanca diatriba sull’intellettuale organico o disorganico, ricavata da un Gramsci spesso frainteso, è a un altro Gramsci che bisognerebbe oggi guardare, quello delle straordinarie pagine sul senso comune: filosofi, cioè intellettuali, sono tutti, ovvero tutti dovrebbero esserlo. Finché l’intellettuale era a sua volta un sacerdote,  (cioè l’amministratore di qualcosa di sacro; e legislatore o interprete, per riprendere una fortunata distinzione di Zigmunt Bauman, in fondo poco importa), questa possibilità era negata in radice. Ma finalmente il cielo è caduto sulla terra, e non possiamo che rallegrarcene.

Ad essersi redistribuite però sono per ora solo le competenze, non lo spirito critico; i saperi, non il loro utilizzo in direzione dell’autogoverno, dell’autonomia, della sottrazione al comando. Lo sguardo malinconico è miope ma coglie qualcosa. Non più pochi ma molti trafficano con i simboli, le immagini, i discorsi e le narrazioni: il punto è per farne cosa. Allo stato attuale, più che altro per guadagnarsi la vita (in senso lato: non solo mantenersi ma accedere alla visibilità, al riconoscimento, alla “pubblicità”); non per cambiarla. Che le si chiami “classi creative” o “intellettualità di massa”, la maggior parte delle figure addette alla produzione simbolica (designer, grafici, architetti, copywriter, creatori di software, ecc: non solo romanzieri e studiosi) danno l’impressione di vivere in un tempo non post ma preumanistico: artigiani che hanno come unico orizzonte di socialità la bottega, il tramando delle tecniche, la necessità di sollecitare sempre di nuovo la committenza. Il senso critico è mal visto, e lo è appunto perché la committenza, la si chiami industria culturale o come si vuole, non vuole saperne. Per ragioni perfettamente comprensibili: sapere e immaginazione si vendono bene; una critica non la compra nessuno. Questa è allora la vera domanda: come cogliere, come far crescere, che istituzioni dare a quel senso critico diffuso, disseminato, comune, reso possibile dalla fine del carisma? E come evitare che il posto lasciato vuoto dal carisma venga occupato dal ricatto della visibilità mediatica? Vasto programma, che però non giustifica la malinconia. Un compito storico da adempiere qui e ora, altro che lutto e perdita di ruolo. Hic rodus hic salta. 
Il manifesto 28 luglio 2010   - - - -
© Daniele Giglioli

 

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