Massimo Pamio - 29 aprile 2010
Noubs - - - -PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI CLANDESTINI
Le nostre città sono diventate periferie dei centri commerciali: vetrine povere, agglomerati dalla forza centripeta, dove si incontrano perfetti estranei, clandestini spinti all’esterno dei luoghi del commercio, prestati come ostaggi a posti che non appartengono più loro. La memoria delle piazze, dei centri storici, dei mercati rionali è stata interamente divorata dal presente splendidamente infatuante e ammaliante, da capogiro e da copertina fashion, delle ipergallerie delle "città mercato", megalitici mostri patinati e plastificati in cui tutto accade, nella fiction più totale, nella fictioattualità, nella fattualità dell'interazione economica (la vita è ormai intesa come merce da scontare al fine di acquisire un profitto personale e il progetto dell'esistenza si risolve in aziendalizzazione, ovvero in strategia di marketing delle proprie qualità e capacità impegnate per realizzare un guadagno dallo spaccio del proprio corpo e delle proprie idee).
I cittadini sono zombie, morti viventi, la cui non-vita è messa in pericolo dall'arrivo di stranieri, di clandestini, di estranei che con la loro presenza creano estraniamento, destabilizzazione, insicurezza, e squarciano il velo di paura che è il collante che tiene insieme la nostra società, basata sulla paura del vicino.
La paura del vicino si svela quando la cronaca riferisce di omicidi (a volte di intere famiglie) perpetrati da un individuo a danno del dirimpettaio. Quando questi fatti si compiono, immancabilmente il giornalista di turno intervista un altro condomino che così riferisce dell'omicida: "Era una persona normale. Lo vedevo tutti i giorni, era gentile, educato, ma non ci conoscevamo, ci salutavamo sul pianerottolo". Ma questa affermazione non è sintomo di una paura inconscia? Di diffidenza? Non è nascosta in questa frase la paura del vicino? Il vicino è sempre potenzialmente un mostro, giacché non ne sappiamo nulla. È solo uno che si mostra e poi si rivela nel gesto omicida, liberazione (o liberalizzazione?) e attualizzazione della paura del vicino.
Sul clandestino, sullo straniero, la società proietta la Paura del Vicino.
L'accoglienza dello straniero è inconcepibile, soprattutto per una società che come la nostra è basata sulla solitudine, sul superamento della socialità, della comunicazione: tutti elementi che dopo anni e anni di progresso finalmente siamo riusciti a cancellare dal nostro sistema (al fine dell'efficienza, dell'ottimizzazione del sistema stesso). E allora? Chi è che vorrebbe cambiare il nostro stile di vita fondato sulla paura del vicino, sulla diffidenza, per venire a chiederci e quasi a imporci accoglienza, comunicazione, fiducia?
Noi non possiamo elargire fiducia ma solo ostentare la nostra progredita civile indifferenza che grazie a una abbondante dose di cinismo e di ipocrisia ci fa gruppo, nazione, o addirittura patria. Se cerchiamo nei posti di lavoro nei luoghi di divertimento nei circoli del golf nei club privati - nei condomini come nelle chiese- di escludere il vicino, se la vita quotidiana consiste nella lotta per escludere il nostro collega di lavoro, il nostro vicino di casa, il nostro compagno di squadra dal riconoscimento di un qualsiasi merito che deve invece essere assegnato a noi, e infine dalla conquista di una qualsiasi poltrona o del successo soffocando la pretesa di chi magari avrebbe più diritto di noi, ebbene come si fa a concepire l'inclusione, come si fa ad accettare l'integrazione, come si fa ad accogliere nella nostra associazione un individuo come noi (direbbe Woody Allen), se appunto tutte le nostre azioni quotidiane sono volte a favorire l'esclusione?
Chi viene per chiedere asilo è già di per sé un perdente, è fuori dal giuoco, non ha nessun diritto di partecipare alla guerra quotidiana e fratricida che noi scontiamo per vivere. È la guerra che ci fa solidali! Il terzo escluso non è previsto, potrebbe mostrarci il rovescio della medaglia e scoperchiare il vaso di Pandora della nostra cattiva coscienza, facendoci insorgere il dubbio che l'Occidente sia la prova del clamoroso fallimento delle generazioni che ci hanno preceduto con il loro ingegno e con il loro sacrificio creando una organizzazione sociale basata sullo scontro e non sull'incontro. Noi siamo il prodotto finale di un progresso che ci ha spinti a riprodurre la legge tribale nella famiglia, che ci ha insegnato a non giudicarci e a ritenere che la nostra sia la migliore società possibile e che il totem del centro commerciale sia il luogo magico della realizzazione di tutti i nostri sogni, mentre invece…
Noi non siamo razzisti nei confronti dei rom, dei clandestini, degli stranieri che giungono con i barconi della speranza in Italia: noi siamo razzisti nei confronti degli altri italiani, noi viviamo per costituire piccoli clan che si scontrano contro tutti gli altri clan in una battaglia senza confini, noi siamo razzisti in una società cristiana per crocifiggere ogni giorno la possibilità di amarci, di essere solidali, noi siamo razzisti e basta, incattiviti dalla storia che abbiamo immesso nei libri per rispettare il bene comune di coloro che la storia la scrivono. Così, nelle nostre città, noi abbiamo bisogno di aver paura, preghiamo affinché ci sia una paura comune (vero bene comune) affinché gli altri ci temano e viceversa, e nel condividere la paura godiamo fino al piacere (un piacere da film dell'orrore): ma guai a un estraneo che venga a spezzare questo idillio privato, intimo, idillio che deve essere celato agli altri.
Il fattore x del potere occidentale, il fattore x della globalizzazione consiste nell'annullare le relazioni sociali e il colloquio tra i vicini in favore di aggregazioni indotte, spontanee o occasionali non durevoli (nei luoghi di vacanza e nel web, ecc.). Finisce l'era della sindacalizzazione e della politicizzazione, della polis, della comunità. Inizia l'era di un nuovo nomadismo che però non garantisce un destino comune ma consegna le masse a un potere occulto e "dark", un potere terroristico, con il volto coperto, che non si sa dove come e quando colpirà.
© Massimo Pamio
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