Marco Mancassola -
18 giugno 2010
IN FUGA DALLA RETE. Gli ambigui vantaggi dell'eterna presenza
“C’è da dubitare che uno scrittore con una connessione internet al suo posto di lavoro stia scrivendo un buon libro.”
Quando poche settimane fa il quotidiano The Guardian chiese ad alcuni scrittori di fama internazionale di compilare un decalogo con i loro consigli di scrittura, il romanziere americano Jonathan Franzen inserì nel suo decalogo questa norma a difesa della concentrazione. Qualunque scrittore sa quanto sia strategica la battaglia per la concentrazione e in questa battaglia, semplicemente, la rete sta dalla parte del nemico. La rete è informazione, certo, possibilità di eseguire in breve tempo ricerche, di recuperare dati o anche solo di consultare un dizionario online. Ma la rete è soprattutto distrazione. Finestre di chat che sbocciano sullo schermo come fiori di una pianta carnivora, raffiche di email che interrompono il lavoro. Un problema che non solo gli scrittori conoscono bene.
La morte dell’attenzione
Il flusso infinito di informazioni non serve più ad aumentare la nostra consapevolezza ma solo alla nostra necessità di sentirci connessi, non isolati dal network.
Gli allarmi sugli effetti negativi della rete sulle capacità cognitive, oltre che su quelle di relazione sociale, si moltiplicano da tempo. Secondo tali allarmi, la gente non sa più concentrarsi su testi lunghi, schiva i paragrafi troppo compatti, assimila in modo superficiale e frammentato. Lavora saltando da un programma all’altro senza essere davvero presente in nulla. I giornali pubblicano ricerche e articoli sull’argomento che i lettori, il più delle volte, sbirciano distrattamente dopo averli trovati sulla bacheca facebook di un amico.
È stata la manager-scrittrice Linda Stone, dopo aver lavorato per anni ai piani alti di Apple e quindi di Microsoft, a coniare l’espressione Continous Partial Attention. La Cpa corrisponde a quel febbrile stato mentale con cui l’utente passa da un’opportunità all’altra della rete, da una notizia all’altra, da un messaggio all’altro, dedicando a ciascuno un’attenzione momentanea e mai completa, ipnotizzato da un senso di costante ricerca e di crisi senza soddisfazione. Il flusso infinito di informazioni non serve più ad aumentare la nostra consapevolezza ma solo alla nostra necessità di sentirci connessi, non isolati dal network.
La nozione di Cpa viene spesso associata a quella di multitasking, la tendenza a svolgere più mansioni in contemporanea. Per molte persone è esperienza quotidiana: parlare al telefono mentre si chatta con un amico mentre si scorrono le email di lavoro mentre in sottofondo va una playlist di Youtube. Nel gioco a incastri della vita davanti al terminale, le combinazioni sembrano senza fine. È proprio sul multitasking che neurologi e psicologi cognitivi puntano per determinare se l’era digitale stia cambiando o meno i nostri cervelli. In un intervento apparso sulla rivista online Edge, lo psicologo Steven Pinker si è detto scettico:
È stata la manager-scrittrice Linda Stone, dopo aver lavorato per anni ai piani alti di Apple e quindi di Microsoft, a coniare l’espressione Continous Partial Attention. La Cpa corrisponde a quel febbrile stato mentale con cui l’utente passa da un’opportunità all’altra della rete, da una notizia all’altra, da un messaggio all’altro, dedicando a ciascuno un’attenzione momentanea e mai completa, ipnotizzato da un senso di costante ricerca e di crisi senza soddisfazione. Il flusso infinito di informazioni non serve più ad aumentare la nostra consapevolezza ma solo alla nostra necessità di sentirci connessi, non isolati dal network.
La nozione di Cpa viene spesso associata a quella di multitasking, la tendenza a svolgere più mansioni in contemporanea. Per molte persone è esperienza quotidiana: parlare al telefono mentre si chatta con un amico mentre si scorrono le email di lavoro mentre in sottofondo va una playlist di Youtube. Nel gioco a incastri della vita davanti al terminale, le combinazioni sembrano senza fine. È proprio sul multitasking che neurologi e psicologi cognitivi puntano per determinare se l’era digitale stia cambiando o meno i nostri cervelli. In un intervento apparso sulla rivista online Edge, lo psicologo Steven Pinker si è detto scettico:
“I cosiddetti multitasker sono come Woody Allen quando dice che dopo un corso di lettura veloce ha divorato Guerra e pace in una sera e ha capito che «parla di certi russi»”.Sempre su Edge, il filosofo-guru della finanza e della statistica Nassim Taleb ha fatto una confessione. Ha annunciato di essersi messo a dieta di internet. “Ho ridotto l’uso della rete per capire meglio il mondo. Quando passo un po’ di tempo in silenzio nella mia biblioteca, lontano dall’inquinamento dell’informazione, mi sento in armonia con i miei geni e sento che sto crescendo di nuovo.”
Se per “capire meglio il mondo” qualcuno ha bisogno di abbandonare il medium che più di tutti, oggi, pretende di farcelo conoscere, è chiaro che la situazione si è fatta paradossale. La progressiva morte dell’attenzione risulta cruciale per capire alcuni fenomeni culturali. Ad esempio l’estinzione della poesia. Con la sua brevità e la sua immediatezza, ci si sarebbe potuti aspettare un revival della poesia nell’era della rete. Invece, come ha sottolineato il poeta statunitense Donald Revell, la poesia non ha tanto a che vedere con la lunghezza quanto con l’attenzione, e “l’attenzione è un fatto di totalità, di essere pienamente presenti”.
Bulimia informativa
Il riferimento a Revell è contenuto in un libro di fresca uscita in Italia: La tirannia dell’email di John Freeman (Codice Edizioni, traduzione di Giovanna Olivero, pp. 214, euro 17). Freeman è cresciuto in California dove per dieci anni ha consegnato giornali a domicilio. Quindi ha iniziato a scrivere per quegli stessi giornali. Oggi, nemmeno quarantenne, è direttore editoriale di una delle più prestigiose riviste letterarie al mondo, l’inglese Granta. Ciò che distingue la sua analisi di grandezze e miserie della vita ditigale, dunque, è un approccio letterario-umanistico che gli permette di creare immagini e accostamenti efficaci.
L’analisi di Freeman si concentra in particolare sull’uso, e inevitabile abuso, del nostro strumento comunicativo per eccellenza: l’email. “I corridoi delle aziende sono silenziosi, neanche fosse la mattina del giorno di Natale. In certi posti di lavoro tutto ciò che si sente è il ronzio di fondo dell’aria condizionata, il cigolio delle sedie girevoli, i clic dei mouse e il flebile ticchettio dei tasti. Ma se ci si affaccia nei cubicoli o dalle porte socchiuse si vedranno figure tese, ingobbite sui computer, affannate a star dietro alle continue email. Se proviamo a interromperle ci troveremo davanti espressioni vacue, occhi vitrei e affaticati. La loro tastiera è diventata un nastro trasportatore di messaggi, e le pause non sono previste.”
Se il quadro dipinto da Freeman appare esagerato, si dovrà riflettere sui dati. Secondo le statistiche citate nel libro, l’impiegato medio americano spende oltre il 40% della giornata lavorativa leggendo e inviando posta elettronica. Nel mondo vengono spedite all’incirca seicento milioni di email ogni dieci minuti. Il sovraccarico di informazioni costa all’economia globale centinaia di miliardi ogni anno. Una bulimia informativo-comunicativa di fronte alla quale, tutto sommato, la dieta di Taleb non appare così insensata.
La slot machine dell’identità
La dipendenza dall’email, un disturbo ampiamente studiato che porta il soggetto a controllare la posta con modalità ossessivo-compulsive, ogni pochi minuti e a qualunque ora del giorno e della notte, viene paragonata da Freeman alla dipendenza da gioco: si clicca su invia/ricevi con la stessa aspettativa con cui si tira la leva di una slot machine. Si spera nella ricompensa dell’arrivo di un nuovo messaggio, di una prova della nostra importanza per il mondo. È solo una delle perversioni descritte ne La tirannia dell’email.
La banda larga e la diffusione dei dispositivi mobili come il blackberry ci hanno portato in dono gli ambigui frutti della connessione totale, della reperibilità senza sosta, della simultaneità delle risposte. La gente si stupisce e diventa aggressiva, o peggio paranoica, se non rispondi ai loro messaggi entro un paio d’ore. Siamo qui, siamo ora, ci siamo sempre. Ma siamo davvero presenti a noi stessi?
Gli ambigui vantaggi della connessione totale assumono l’aspetto di un vero ricatto se inseriti nella cornice del tardocapitalismo, con lavoratori sempre più precari e disponibili, quindi, a lasciare che il lavoro li segua a casa, a letto, in vacanza. Il lavoro ha smesso da un pezzo di accontentarsi del nostro corpo e della nostra mente: oggi chiede la totalità della nostra energia. Ovvero la nostra anima. Ciò che ci dà in cambio è l’illusione di essere ancora al centro di qualcosa, di essere lo snodo di una rete, punto di passaggio di messaggi, notizie, decisioni, impulsi operativi, o anche solo futili chiacchiere. La vera droga del XXI secolo è tutta in questo necessario, adrenalinico senso di connessione, in questa ultima abissale illusione di esserci.
Un altro decalogo
A questo proposito, Freeman riporta che gli americani dormono in media un’ora in meno di vent’anni fa. Facile immaginare che gli europei seguano l’esempio. L’autore continua riportando i drammatici casi di alcuni blogger morti di superlavoro; quindi, con improvviso scarto ironico, racconta della superstar Madonna che, un paio di anni fa, confessò che lei e il marito dormivano con il blackberry sotto il cuscino. “Nell’estate del 2008, cominciarono a trapelare notizie sull’imminente divorzio della coppia.”
Tutt’altro che luddista, Freeman non intende contestare il progresso rappresentato dalla rete. Piuttosto, si interroga sulla velocità dilaniante a cui ci siamo adeguati e che annulla di fatto ogni vantaggio. Il riferimento, qui, non può che essere al filosofo Paul Virilio e alla sua classica, citatissima affermazione: “Troppa velocità è come troppa luce: non vediamo nulla”. Con felice istinto pop, Freeman accosta la citazione di Virilio a una del pilota Michael Schumacher: “Per le cose perfette, la velocità è una forza unificante; per le cose imperfette, è una forza distruttiva.”
Se la velocità è il problema, la soluzione potrebbe essere quasi facile da individuare. La tirannia dell’email si conclude con un invito a rallentare: un manifesto slow communication composto di poche pacate regolette tra cui quella di inviare meno posta, limitarsi a due sessioni di email al giorno, riservare porzioni della giornata senza computer. Un esempio di squisito buonsenso anglosassone. Ma forse, anche, una conclusione troppo conciliante che tradisce la radicalità di alcuni spunti inseriti nel corso del libro. Il decalogo di Freeman si basa sull’assunto che la rete sia un’appendice della realtà fisica dei corpi e dei sentimenti, e quindi vada semplicemente dosata in modo da rispettare le nostre esigenze naturali. C’è da chiedersi se un simile assunto non sia fuori tempo massimo. Non sarà la nostra realtà reale, invece, a venire già vissuta come una misera appendice della rete?
La rinascita dell’umano
Chiunque viva oggi nel mondo occidentale conosce per esperienza il modo in cui il tipo di interazione sociale che domina in rete – superficiale, fugace, vorace, volubile, frammentario – tende a trasferirsi, sempre più, nel mondo fisico. La rete non avrà cambiato i nostri schemi cognitivi ma sta cambiando quelli emotivi.
Al tempo stesso, sarebbe ovviamente sbagliato fare della rete un totem unico e oppressivo. In primo luogo, perché è molto più fragile di quanto sembri. Chi ricorda gli incidenti navali che provocarono, due anni fa, il tranciamento di cavi di telecomunicazione nel Mediterraneo, lasciando gran parte del Medio Oriente sconnesso? Ai tempi i blogger si scatenarono in chissà quali teorie complottistiche. La verità è che la rete è un sogno leggero, sempre sul punto di sfumare, una visione fragile e rivoluzionaria che ha mosso appena i primi rudimentali passi.
Attraverso la stessa finestra sul mondo, la gente lavora e si informa e consulta siti porno. Tutte le portate hanno lo stesso sapore. Cascate di tweet inutili scandiscono le giornate e il massimo impegno politico sembra quello di cliccare mi piace sulla pagina di una petizione. Quando Jonathan Franzen suggerisce agli scrittori di sconnettersi, ci sta ricordando che la scrittura è un’attività che richiede il concentramento di una quantità sovrumana di attenzione, così come un reattore richiede il concentramento di calore. Il risultato, se andrà bene, è la nascita di uno spazio altro: la creazione letteraria di un altro piano di realtà, di un altro mondo. Esattamente quello che contraddistingue l’essere umano. L’ambizione a creare un altro mondo. La rete si è sviluppata con questa stessa ambizione e nonostante le sue derive oggi così futili, così dispersive, prima o poi dovrà trovare il modo per giocarsi la sua partita effettiva: provare a renderci più umani, anziché disumani.
SCHEDA - JARON LANIER, DALLA REALTÀ VIRTUALE ALLA CRITICA DEL WEB 2.0
Altro che premio Nobel per la pace a internet. Dell’ultima ondata di «scettici della rete» fanno parte, significativamente, teorici e visionari della prima era digitale. A distanza di due o tre decenni, gli sviluppi di internet sono lontani dal sogno originario?
Jaron Lanier, cinquantenne, lunghi dreadlock che pendono dalla testa, negli anni Ottanta inventò il termine realtà virtuale. “Supponiamo che a quel tempo, negli anni Ottanta, qualcuno avesse detto: tra un quarto di secolo, quando la rivoluzione digitale avrà fatto enormi progressi e i chip dei computer saranno milioni di volte più veloci, tutto quello che l’umanità riuscirà a fare sarà scrivere una nuova enciclopedia e una nuova versione di Unix”, ha scritto riferendosi a Wikipedia e Linux. “Sarebbe suonato patetico.”
Nel libro You are not a gadget (edizione americana Knopf Publishing, pp. 224, dollari 24.95), Lanier si scaglia contro le dinamiche del web 2.0. Secondo l’autore, la produzione costante di contenuti da parte di blogger e autori non pagati serve solo a rendere ricco chi si limita ad aggregare quei contenuti, trasformandoli in dati spersonalizzati: in primo luogo Google. La presunta democrazia diventa perdita di dignità e autorevolezza del lavoro dei singoli; l’ossessione per l’anonimato è un relitto della paranoia degli anni Sessanta. E quanto all’illusione di acquisire un’identità sul web: “Hai bisogno di essere qualcuno prima di condividere te stesso”.
Il riferimento a Revell è contenuto in un libro di fresca uscita in Italia: La tirannia dell’email di John Freeman (Codice Edizioni, traduzione di Giovanna Olivero, pp. 214, euro 17). Freeman è cresciuto in California dove per dieci anni ha consegnato giornali a domicilio. Quindi ha iniziato a scrivere per quegli stessi giornali. Oggi, nemmeno quarantenne, è direttore editoriale di una delle più prestigiose riviste letterarie al mondo, l’inglese Granta. Ciò che distingue la sua analisi di grandezze e miserie della vita ditigale, dunque, è un approccio letterario-umanistico che gli permette di creare immagini e accostamenti efficaci.
L’analisi di Freeman si concentra in particolare sull’uso, e inevitabile abuso, del nostro strumento comunicativo per eccellenza: l’email. “I corridoi delle aziende sono silenziosi, neanche fosse la mattina del giorno di Natale. In certi posti di lavoro tutto ciò che si sente è il ronzio di fondo dell’aria condizionata, il cigolio delle sedie girevoli, i clic dei mouse e il flebile ticchettio dei tasti. Ma se ci si affaccia nei cubicoli o dalle porte socchiuse si vedranno figure tese, ingobbite sui computer, affannate a star dietro alle continue email. Se proviamo a interromperle ci troveremo davanti espressioni vacue, occhi vitrei e affaticati. La loro tastiera è diventata un nastro trasportatore di messaggi, e le pause non sono previste.”
Se il quadro dipinto da Freeman appare esagerato, si dovrà riflettere sui dati. Secondo le statistiche citate nel libro, l’impiegato medio americano spende oltre il 40% della giornata lavorativa leggendo e inviando posta elettronica. Nel mondo vengono spedite all’incirca seicento milioni di email ogni dieci minuti. Il sovraccarico di informazioni costa all’economia globale centinaia di miliardi ogni anno. Una bulimia informativo-comunicativa di fronte alla quale, tutto sommato, la dieta di Taleb non appare così insensata.
La slot machine dell’identità
La dipendenza dall’email, un disturbo ampiamente studiato che porta il soggetto a controllare la posta con modalità ossessivo-compulsive, ogni pochi minuti e a qualunque ora del giorno e della notte, viene paragonata da Freeman alla dipendenza da gioco: si clicca su invia/ricevi con la stessa aspettativa con cui si tira la leva di una slot machine. Si spera nella ricompensa dell’arrivo di un nuovo messaggio, di una prova della nostra importanza per il mondo. È solo una delle perversioni descritte ne La tirannia dell’email.
La banda larga e la diffusione dei dispositivi mobili come il blackberry ci hanno portato in dono gli ambigui frutti della connessione totale, della reperibilità senza sosta, della simultaneità delle risposte. La gente si stupisce e diventa aggressiva, o peggio paranoica, se non rispondi ai loro messaggi entro un paio d’ore. Siamo qui, siamo ora, ci siamo sempre. Ma siamo davvero presenti a noi stessi?
Gli ambigui vantaggi della connessione totale assumono l’aspetto di un vero ricatto se inseriti nella cornice del tardocapitalismo, con lavoratori sempre più precari e disponibili, quindi, a lasciare che il lavoro li segua a casa, a letto, in vacanza. Il lavoro ha smesso da un pezzo di accontentarsi del nostro corpo e della nostra mente: oggi chiede la totalità della nostra energia. Ovvero la nostra anima. Ciò che ci dà in cambio è l’illusione di essere ancora al centro di qualcosa, di essere lo snodo di una rete, punto di passaggio di messaggi, notizie, decisioni, impulsi operativi, o anche solo futili chiacchiere. La vera droga del XXI secolo è tutta in questo necessario, adrenalinico senso di connessione, in questa ultima abissale illusione di esserci.
Un altro decalogo
A questo proposito, Freeman riporta che gli americani dormono in media un’ora in meno di vent’anni fa. Facile immaginare che gli europei seguano l’esempio. L’autore continua riportando i drammatici casi di alcuni blogger morti di superlavoro; quindi, con improvviso scarto ironico, racconta della superstar Madonna che, un paio di anni fa, confessò che lei e il marito dormivano con il blackberry sotto il cuscino. “Nell’estate del 2008, cominciarono a trapelare notizie sull’imminente divorzio della coppia.”
Tutt’altro che luddista, Freeman non intende contestare il progresso rappresentato dalla rete. Piuttosto, si interroga sulla velocità dilaniante a cui ci siamo adeguati e che annulla di fatto ogni vantaggio. Il riferimento, qui, non può che essere al filosofo Paul Virilio e alla sua classica, citatissima affermazione: “Troppa velocità è come troppa luce: non vediamo nulla”. Con felice istinto pop, Freeman accosta la citazione di Virilio a una del pilota Michael Schumacher: “Per le cose perfette, la velocità è una forza unificante; per le cose imperfette, è una forza distruttiva.”
Se la velocità è il problema, la soluzione potrebbe essere quasi facile da individuare. La tirannia dell’email si conclude con un invito a rallentare: un manifesto slow communication composto di poche pacate regolette tra cui quella di inviare meno posta, limitarsi a due sessioni di email al giorno, riservare porzioni della giornata senza computer. Un esempio di squisito buonsenso anglosassone. Ma forse, anche, una conclusione troppo conciliante che tradisce la radicalità di alcuni spunti inseriti nel corso del libro. Il decalogo di Freeman si basa sull’assunto che la rete sia un’appendice della realtà fisica dei corpi e dei sentimenti, e quindi vada semplicemente dosata in modo da rispettare le nostre esigenze naturali. C’è da chiedersi se un simile assunto non sia fuori tempo massimo. Non sarà la nostra realtà reale, invece, a venire già vissuta come una misera appendice della rete?
La rinascita dell’umano
Chiunque viva oggi nel mondo occidentale conosce per esperienza il modo in cui il tipo di interazione sociale che domina in rete – superficiale, fugace, vorace, volubile, frammentario – tende a trasferirsi, sempre più, nel mondo fisico. La rete non avrà cambiato i nostri schemi cognitivi ma sta cambiando quelli emotivi.
Al tempo stesso, sarebbe ovviamente sbagliato fare della rete un totem unico e oppressivo. In primo luogo, perché è molto più fragile di quanto sembri. Chi ricorda gli incidenti navali che provocarono, due anni fa, il tranciamento di cavi di telecomunicazione nel Mediterraneo, lasciando gran parte del Medio Oriente sconnesso? Ai tempi i blogger si scatenarono in chissà quali teorie complottistiche. La verità è che la rete è un sogno leggero, sempre sul punto di sfumare, una visione fragile e rivoluzionaria che ha mosso appena i primi rudimentali passi.
Attraverso la stessa finestra sul mondo, la gente lavora e si informa e consulta siti porno. Tutte le portate hanno lo stesso sapore. Cascate di tweet inutili scandiscono le giornate e il massimo impegno politico sembra quello di cliccare mi piace sulla pagina di una petizione. Quando Jonathan Franzen suggerisce agli scrittori di sconnettersi, ci sta ricordando che la scrittura è un’attività che richiede il concentramento di una quantità sovrumana di attenzione, così come un reattore richiede il concentramento di calore. Il risultato, se andrà bene, è la nascita di uno spazio altro: la creazione letteraria di un altro piano di realtà, di un altro mondo. Esattamente quello che contraddistingue l’essere umano. L’ambizione a creare un altro mondo. La rete si è sviluppata con questa stessa ambizione e nonostante le sue derive oggi così futili, così dispersive, prima o poi dovrà trovare il modo per giocarsi la sua partita effettiva: provare a renderci più umani, anziché disumani.
SCHEDA - JARON LANIER, DALLA REALTÀ VIRTUALE ALLA CRITICA DEL WEB 2.0
Altro che premio Nobel per la pace a internet. Dell’ultima ondata di «scettici della rete» fanno parte, significativamente, teorici e visionari della prima era digitale. A distanza di due o tre decenni, gli sviluppi di internet sono lontani dal sogno originario?
Jaron Lanier, cinquantenne, lunghi dreadlock che pendono dalla testa, negli anni Ottanta inventò il termine realtà virtuale. “Supponiamo che a quel tempo, negli anni Ottanta, qualcuno avesse detto: tra un quarto di secolo, quando la rivoluzione digitale avrà fatto enormi progressi e i chip dei computer saranno milioni di volte più veloci, tutto quello che l’umanità riuscirà a fare sarà scrivere una nuova enciclopedia e una nuova versione di Unix”, ha scritto riferendosi a Wikipedia e Linux. “Sarebbe suonato patetico.”
Nel libro You are not a gadget (edizione americana Knopf Publishing, pp. 224, dollari 24.95), Lanier si scaglia contro le dinamiche del web 2.0. Secondo l’autore, la produzione costante di contenuti da parte di blogger e autori non pagati serve solo a rendere ricco chi si limita ad aggregare quei contenuti, trasformandoli in dati spersonalizzati: in primo luogo Google. La presunta democrazia diventa perdita di dignità e autorevolezza del lavoro dei singoli; l’ossessione per l’anonimato è un relitto della paranoia degli anni Sessanta. E quanto all’illusione di acquisire un’identità sul web: “Hai bisogno di essere qualcuno prima di condividere te stesso”.
Articolo apparso su Il manifesto 18 giugno 2010
© - "il sito dell'autore" Marco Mancassola
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