Massimo Rizzante
2008Dopo l'esilio
Per avere una patria non basta una lingua
Primavera 2004. Termino di leggere un breve saggio di Nonnan Manea, scrittore rumeno emigrato negli Stati Uniti. Vi ritrovo uno dei leit-motiv dell'esilio:
La lingua è sempre la casa e la patria di uno scrittore. Essere esiliato anche da questo rifugio rappresenta il più bmtale decentramento del suo essere, una bmciatura che si apre la strada fino al cuore della creazione.Il passaggio di Manea come una palla di biliardo rimbalza su due, tre sponde e rimanda la mia memoria a dieci anni prima, alla primavera del 1994, quando a Parigi leggevo il saggio di Vera Linhartovà:
Ho scelto il luogo dove vivere, ma ho scelto anche la lingua che volevo parlare. Spesso si pretende che lo scrittore, più di chiunque altro, non sia libero di muoversi, poiché egli è legato alla sua lingua da un legame indissolubile. Credo che si tratti ancora di uno di quei miti che servono da giustificazione alle persone timorate [... ] Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Egli, infatti, prima di essere uno scrittore è un uomo libero.
Ho la sensazione che anche in quest'epoca del dopo-esilio, sebbene le sirene dell' emancipazione planetaria abbiano apparentemente fatto naufragare ogni senso di appartenenza, la radicalità del pensiero della Linhartovà deve fare ancora i conti con l'eterno mito romantico dell' origine.
Ricordiamoci di Novalis: «Il mondo deve essere romantizzato. Solo così ritroveremo il senso originale».
Dopo il XIX secolo e il trionfo delle lingue nazionali, si continua a pensare che solo la lingua materna affondi nel fertile humus dell'infanzia e degli istinti, e quindi della creazione poetica. Ma ci sono stati secoli o intere epoche in cui gli scrittori erano di parere contrario. E non penso soltanto all'Europa, ai monaci nelle abbazie del Medio Evo, agli umanisti nei loro cenacoli, al Rinascimento, ai dotti che redigevano le loro opere scientifiche, filosofiche e critiche in latino fino all'epoca di Goethe.
Un amico di Tokyo mi ha spiegato che nel V secolo, quando il Giappone entrò in contatto con la cultura dell'Asia continentale, non possedeva ancora una sua lingua scritta e, di conseguenza, adottò la lingua cinese che all' epoca aveva già raggiunto una grande perfezione.
In seguito i giapponesi inventarono, attraverso un complicato sistema di trasposizioni sillabiche, un metodo per leggere e scrivere la poesia e la prosa cinesi. Il risultato fu che dal VII secolo fino al XIX secolo la letteratura giapponese fu scritta in due lingue: in . .. giapponese e in cinese.
Il mio amico notava il fatto, apparentemente bizzarro agli occhi di un figlio del romanticismo occidentale, che i poeti giapponesi scelsero di adottare sempre di più il cinese, al punto che oggi gli specialisti del periodo Muromachi (1392-1573) e del periodo Tokugawa (1600-1867) giudicano la poesia lirica scritta dai poeti giapponesi in cinese (Kyounshu) molto più viva e armoniosa di quella scritta in giapponese (Tsukubashu).
Per secoli i poeti giapponesi hanno espresso i loro pensieri e i loro sentimenti in una lingua straniera. Hanno vissuto lontani dalla loro patria linguistica, dalla loro casa, dal loro rifugio. Eppure non hanno mai vissuto questo «brutale decentramento» come un inferno dove la libertà della creazione è eternamente condannata a bruciare.
Quando è che si è più liberi? Quando senza sforzo ci immergiamo nella placenta della nostra lingua materna o quando, di fronte agli ostacoli che una lingua straniera ci impone, diventiamo più coraggiosi e, grazie alla nostra consustanziale estraneità a quella lingua, riusciamo a enunciare senza infingimenti ciò che è essenziale?
Quando è che si è più liberi? Quando decidiamo di trasportare la casa dei nostri genitori ovunque come un guscio di lumaca, o quando decidiamo di «vivere altrove», un altrove «sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità»?
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